Di esordi e rimpianti (e PJ Harvey, e maschere, e malattie)

La cosa buffa è che neanche lo avevo capito, che avrei dovuto scriverlo. Arrivai all’incontro con l’editore convinto che ci fosse in ballo una specie di opuscolo, trenta pagine al massimo. Dopo mezz’ora firmai un contratto editoriale che mi impegnava a consegnare entro quattro mesi il manoscritto di un volume biografico su Polly Jean Harvey. Lunghezza stimata: 150 pagine.

Più che buffo è poco credibile. Eppure andò davvero così. Giuro. La collaborazione tra Sentireascoltare e Odoya avrebbe dovuto fruttare una vera e propria collana di saggi musicali (alla fine furono soltanto due), ma nel progetto fui coinvolto con un attimo di ritardo, persi le premesse, insomma non avevo capito esattamente come stavano le cose. Mi ero convinto che avrei dovuto rimaneggiare la monografia su Polly Jean che avevo scritto per Sentireascoltare, mettere un po’ di sostanza qui, allungare un po’ il brodo là, aggiungere un po’ di contesto, e via, cosa fatta. Trenta pagine al massimo. Poco più che un opuscolo.

E invece.

Mentre l’editore stava ancora spiegando i contorni del progetto e la realtà dei fatti mi si chiariva in testa, ostentavo la mia migliore imitazione di quell’atteggiamento che in certi film di bassa lega verrebbe catalogato alla voce: calma olimpica. In realtà, mi si stavano sbriciolando le ossa e l’intestino.

Comunque, firmai. Non avevo la minima idea di come avrei fatto a consegnare in tempo quella cosa che neppure immaginavo in che modo iniziare a scrivere. Ma: firmai. Fu un po’ come prendere un Intercity al volo: il minimo che potessi aspettarmi era che mi si staccasse un braccio. Tuttavia, firmai.

Il resto della primavera e l’estate del 2009 furono un prevedibile delirio. Sudavo freddo. Venivo colto da diarree devastanti. Mi ritrovavo sveglio nel cuore della notte, febbricitante, gli occhi sbarrati, a valutare l’assenza di ogni motivo per cui stessi lì a fissare il soffitto anziché – che ne so – dormire. A tempo perso – tolto l’ufficio e il menage familiare – scrivevo.

Inaugurai un metodo: non pensare, scrivi. È un buon metodo. Non ne ho trovato ancora uno migliore. Ma capii abbastanza presto che tra scrivere un articolo monografico di ventimila battute e un volume di almeno duecentomila non correva solo una differenza quantitativa: era un altro sport. Scrivevo, scrivevo, ma non andavo da nessuna parte. Avevo bisogno di un piano.

L’illuminazione mi venne passando lo sguardo sulla mia libreria: incontrai la costola del mio vecchio Oscar Mondadori di Alice nel Paese delle Meraviglie e mi convinsi che quello sarebbe stato il tema della mia monografia. Polly come Alice precipitata dal Dorset nel Mondo, dove avrebbe incontrato personaggi stranissimi ed emblematici, fino al ritorno a casa con un bagaglio di avventure che l’avevano resa donna ormai, matura, consapevole, completa.

Già provavo ad abbinare i bislacchi personaggi di Carroll a quelli con cui realmente PJ Harvey aveva avuto a che fare: John Parish come il Cappellaio Matto, Marianne Faithfull una ineffabile Regina di Cuori, Nick Cave un ambiguo Gatto del Cheshire, e via discorrendo. Ci vollero un paio di giorni perché realizzassi che sarebbe stato un fallimento totale, la più ridicola delle monografie musicali. Però quelle ore di entusiasmo abbacinante mi erano servite a capire ciò di cui avevo bisogno: una chiave narrativa. La trovai prestissimo, anche perché l’avevo sotto gli occhi.

Era sempre stata lì: Polly aveva davvero compiuto un viaggio alla scoperta di sé, si era distaccata non senza sforzo dal natio Dorset, dalle sue credenze, dalla magia dei paesaggi, dall’impasto di calore e ottusità dei costumi, per impadronirsi progressivamente della Città (Bristol, Londra, New York…) e infine tornare, maschera dopo maschera, al punto di partenza col meraviglioso White Chalk. Un cerchio chiuso, una fase artistica perfettamente compiuta.

Ricominciai a scrivere, e stavolta avevo una direzione. Macinavo parole, frasi e paragrafi come un Intercity a reazione. Fioccavano capitoli come una nevicata acida. La notte mi svegliavo, gli occhi spalancati, la mente attivissima, fissavo il soffitto ma al soffitto neanche facevo caso: in realtà sistemavo paragrafi, ritoccavo periodi, sostituivo parole, tutto rigorosamente nella mia testa. Stavo diventando pazzo. Ero elettrizzato e fertile. La diarrea continuava a presentarsi con regolarità, ma non ci badavo.

A settembre consegnai il manoscritto. Fu come staccarsi un braccio e spedirlo via corriere. “Tenete, fatene buon uso“. Era venuto anche più lungo di quanto pensassi, ma non riuscivo a capire cosa significasse in termini di pagine. Mi chiedevo: avrò raggiunto le 150 pagine? Dovrò aggiungere qualcosa? E, se sarà necessario, cosa potrò mai aggiungere? Sì, stavo diventando pazzo.

I giorni seguenti furono l’esperienza più vicina al concetto di vuoto che abbia mai provato. Più che vivere, vagavo nella mia vita. Mi mancava qualcosa e sentivo che non lo avrei mai recuperato.

Tempo un paio di settimane e venne il tempo delle correzioni, su cui mi buttavo con una fame da licantropo: ricevevo il pezzo da correggere e dopo mezz’ora lo rispedivo, corretto e – già che c’ero – ritoccato. Quando mi inviarono il pdf dell’impaginato, trasecolai: caspita, ci sono tutte queste immagini? C’è pure un indice dei nomi? Cosa? 237 pagine?

E poi, e poi… Cosa dire di quella metà di novembre quando arrivò il pacco con le mie copie promozionali? Sarebbe troppo retorico, persino banale, dire che fu una sensazione strana e meravigliosa e che… No. In realtà ne fui deluso. Era solo un libro. Esattamente come avrei sperato potesse mai diventare e persino migliore, ma: nient’altro che un libro. Copertina lucida, odore di carta, di colle, d’inchiostro. Un libro, già, di cui in pochi sentivano il bisogno e che in pochi avrebbero letto. E a quei pochi, chissà se sarebbe piaciuto.

È imbarazzante, lo so, ma in quel momento pensai davvero: tutto qui? Era meglio, molto meglio, quando si trattava di un sogno, quello che avevo covato per anni, fin da quando mi era venuto il vizio di scrivere sempre, ovunque, di tutto. Ne era uscito solo un libro come tanti: era davvero quello, il sogno?

Mi fecero notare che ero dimagrito. Negli ultimi tempi ero stato un po’ impegnato, distratto da altro, per farci caso. Mi pesai: avevo perso più di dieci chili in, boh, due mesi. Ripensai alla diarrea. Ai dolori alle gambe e alla schiena. Mi decisi a fare degli esami. Ci vollero settimane per capire di cosa si trattava. Intanto continuavo a dimagrire. Il dolore alle gambe si intensificò tanto da impedirmi di guidare. Camminavo a fatica. Ero nervoso.

All’epoca mia figlia aveva sette anni. La maestra mi raccontò che una mattina, in classe, si era messa a piangere. Alla richiesta di spiegazioni, lei rispose tra i singhiozzi che aveva paura di vedere “babbo morire come nonna“. Mia madre era morta a causa di un linfoma pochi mesi prima, a gennaio. Ed era il gennaio successivo quando finalmente mi diagnosticarono il morbo di Chron. Finalmente, perché mi ero convinto ormai di soffrire di almeno una decina di sindromi e malattie tra le più letali suggerite dai siti e forum medici che consultavo senza sosta. Digitavo i sintomi e altri dati come il sesso, l’età, se bevevo, se fumavo, e ne uscivo con una o più diagnosi terrificanti: tumori, malattie neurodegenerative, infezioni batteriche invalidanti… Fu piuttosto stressante, sì.

Sapere che soffrivo di un morbo con cui avrei dovuto imparare a convivere fino al resto dei miei giorni rappresentò un autentico sollievo, per il semplice fatto che: gli avevo dato un nome.

Per rimettermi in sesto ci vollero dieci mesi di cure più o meno efficaci e fastidiose. Ed ecco il motivo per cui non feci la minima promozione per il mio libro su PJ Harvey. Il mio primo libro, già. Sostenuto da un paio di interviste radiofoniche e stop. Neanche una presentazione. Ero troppo impegnato ad aver paura di morire di cancro al fegato o di finire accartocciato per qualche altra malattia dal nome misterioso.

Ed è anche il motivo per cui ho scritto questo post.

Per quale altro motivo avrei dovuto scriverlo? Per celebrare il decennale di un libro che avranno letto forse in cinquanta? Ok, mi sto commiserando. Facciamo in cento. Al massimo.

La sorprendente recensione di Stefano Isidoro Bianchi su Blow Up

Se ho scritto questo post, è perché pensando a PJ Harvey – Musiche Maschere Vita provo due cose: un po’ di delusione e molto rimpianto. Eppure, quando mi capita di scorgerne la costola sullo scaffale in alto a destra del televisore dove sta infilato tra un saggio su Battisti e l’autobiografia di Mingus (esatto, niente ordine alfabetico, nessun ordine di altro tipo: è l’ultimo retaggio adolescenziale che mi porto dentro, una sciatteria ventrale), quando lo prendo e c’è Polly Jean in copertina così imbronciata e splendida e provocante, così rock accidenti a lei, quando lo sfoglio e ne leggo due o tre frasi a caso e neanche le riconosco come roba mia, quel libro insomma sembra dirmi una cosa.

Sembra rivolgermi un’espressione sdegnata – quelle tipiche espressioni dei libri, sapete – prima di apostrofarmi: “smettila di lamentarti, coglione“. Che, tradotto dal librese, dovrebbe significare più o meno: “Hai messo su pancia, hai la stanchezza disegnata sul volto, non credi più a niente. E allora? Ricordi quando pesavi 65 chili, avevi le caviglie gonfie e non stavi in piedi? Ecco. Smettila di lamentarti. Non fai altro che leggere, ascoltare, scrivere, ti guardi un film ogni tanto: non è quello che hai sempre voluto? Ne hai due di figli adesso, e tua moglie ancora ti sopporta. Smettila di lamentarti, panzone. Sei ancora qui, e forse neanche te lo meriti“.

Ecco, mi dice questo, lui. Quel libro del cazzo che avrà avuto forse cento lettori. Me lo dice col volto, il corpo, la maschera di Polly Jean.

E, sapete cosa? PJ ha sempre ragione.

10 commenti

  1. Cento al massimo? Hey, c’è qualcuno che lo ha acquistato di recente, sai? È lì nella pila dei libri da leggere, in buona compagnia assieme ad altri (oddio, ora che guardo è tra un Reynolds ed un Baricco tutto nero… forse è una compagnia un po’ petulante!).
    Quando arriverà il momento (e a breve arriverà…), la mia lettura sicuramente terrà conto di questo post, della voglia di scrivere un libro, delle aspettative, della consapevolezza e di tante altre cose… 😉

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  2. […] Non mancavano segni che facevano ipotizzare una imminente marginalizzazione del rock (di cui del resto avevamo fatto indigestione durante i 90s), ma d’altro canto il rock continuava a dimostrarsi un linguaggio efficace per esprimere certi attriti culturali ed esistenziali. Ovviamente l’uscita di Kid A fu un turning point, più che una causa scatenante fu il disco-simbolo che incamerava tutte le tensioni dirette verso – per farla breve – un rock -post. Da quel momento tutti i parametri furono sottoposti a una drastica rivalutazione. Ed è appunto poco dopo Kid A che vide la luce Stories From The City, Stories From The Sea di Polly Jean Harvey. […]

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