Cambio di rotta: Let England Shake di PJ Harvey

Nell’estate del 2009, quando stavo rivedendo le bozze del mio libro su PJ Harvey, apparvero in rete due suoi pezzi inediti suonati dal vivo, Last Living Rose e Let England Shake. Naturalmente li ascoltai più volte, mentre almeno tre sentimenti montavano e si fronteggiavano dentro di me: l’eccitazione per un nuovo imminente disco di Polly Jean, la delusione perché il nuovo lavoro avrebbe reso inevitabilmente obsoleta la mia biografia su di lei, e l’esultanza per come quelle due canzoni non smentissero affatto ciò che sostenevo, la mia – ebbene sì – chiave di lettura.

Erano solo due canzoni, certo, eppure la Harvey che prefiguravano aveva ben poco a che vedere con quella che dal 1992 (Dry) al 2007 (White Chalk) aveva tracciato un’orbita impetuosa e composita attorno al mistero di se stessa, in un tumultuoso, viscerale, suggestivo processo di identificazione. Dal Dorset al mondo e ritorno, questa era la chiave: la PJ Harvey che disco dopo disco, maschera dopo maschera, spingeva se stessa alla ricerca di sé, come individuo e donna, come una ferita che diventa cicatrice e lo chiama crescere, maturare, metabolizzando conflitti e rabbia, passione e abuso, trasporto e ostilità, meraviglia e disillusione, una volta rientrata alla base finalmente faceva pace con l’irrequeitezza, accettandola.

White Chalk a mio avviso rappresentava la chiusura del cerchio, riportava tutto a casa, dichiarava esaurita una fase facendo coincidere il raggiungimento degli obiettivi con l’impossibilità di risolvere tutti gli enigmi, i conflitti, le insoddisfazioni. Da lì in avanti, sostenevo nel libro, avremmo avuto a che fare necessariamente con una Polly Jean Harvey diversa. Non dico che quelle due canzoni confermassero questa mia tesi – in fondo erano solo due canzoni, non si sapeva neanche se avrebbero fatto parte del nuovo album – ma di certo non la smentivano.

Tocco attendere il 14 febbraio del 2011 per avere tra le mani, e nello stereo, Let England Shake. Il mio libro era fuori da oltre un anno, nel frattempo una brutta malattia mi aveva messo fuori gioco per diversi mesi e stavo lentamente risalendo la china. Ricordo che ascoltavo queste dodici nuove canzoni senza alcuna urgenza di giudicarle: mi sentivo preparato a confrontarmi con qualcosa di sorprendente. Sì, ero preparato anche ad affrontare l’assenza di PJ Harvey per come la conoscevamo. Tra gli elementi di rottura rispetto al passato c’era la presenza evidente di un tema, al punto che lo si poteva quasi definire un concept album: i testi orbitavano attorno alla guerra, dichiarata e strisciante, promossa e accettata come elemento fondante di un popolo, come esternalizzazione delle conseguenze della civiltà, come corollario di ogni progetto economico su larga scala, forse perfino come un inevitabile sottoprodotto culturale di ogn consesso umano (qui la mia recensione d’epoca).

In questo disco Polly Jean non mette più se stessa – o la proiezione di sé – al centro del groviglio espressivo, al contrario si sottrae, diventa sguardo e rivolge l’obiettivo sul mondo. Racconta, inveisce, implora, cattura sequenze febbrili, frammenti di realtà incastrati nell’obiettivo e ricomposti in un mosaico doloroso e struggente. Le canzoni sono atti d’accusa, grida d’allarme. Rispetto ad esse, il suo posto è dietro il microfono, il megafono, la macchina da presa. Polly Jean è un testimone: di se stessa può offrirti pietà, indignazione, sconcerto, ma lei non è più in discussione, è il mondo ad esserlo. A partire dall’amata Inghilterra, complice di un gioco globale che non fa prigionieri, e di cui si finge inconsapevole.

Questo cambio di prospettiva poetica presupponeva una profonda svolta stilistica, che si lasciava alle spalle tutte le formule precedenti, dal rock ventrale e spigoloso di Dry e Rid Of Me alle trasfigurazioni blues di To Bring You My Love, dalle tentazioni trip-hop di Is This Desire? al dinamismo impetuoso di Stories From the City, Stories From the Sea, dal piglio lo-fi sgarbato di Uh Huh Her al prewar-folk ipnotico di White Chalk. In Let England Shake tanto la voce che i suoni – le chitarre, il drumming – sembrano rinunciare alla verticalità bruciante, alla vertigine problematica dell’Io, per svilupparsi invece in orizzontale, suggerendo l’aprirsi della sensibilità – del punto di vista – verso la collettività, verso il mondo.

Le pennate sulle corde non sono quasi mai percussive, sono vibrazioni che si irradiano, ed è lo stesso per le altre “voci”: pianoforte, organo, xilofono, violino, ottoni e autoharp. Nessuno timbro è un colore primario, ma uno sbuffo cromatico, la pennellata in un quadro composito, vibrante. Così è anche per la voce, sagomata fino a raggiungere sottigliezze e affilature inedite, tessiture volatili e sfarfallii umorali: come pensieri appena usciti allo scoperto, spinti da una necessità insopprimibile d’espressione ma, come dire, recalcitranti a farsi parola. Si senta il lirismo magnetico di On A Battleship Hill, la solennità affranta di The Glorious Land o le fatamorgane etniche smerigliate di Written On The Forehead.

È una Polly insomma agli antipodi rispetto a quella androide e cavernosa di Joy, a quella brutale di Who The Fuck?, a quella romantica e crepuscolare di Send His Love To Me. È una Polly Jean Harvey che fa un passo netto all’indietro, si sottrae, rinuncia a se stessa per dilagare in una versione di sé ulteriore, in cui il fuoco dell’obiettivo esce dal perimetro del proprio corpo, eccede il percorso esistenziale per considerare la possibilità di ogni strada che percorra il mondo.

I video – uno per ogni canzone – realizzati da Seamus Murphy sono in questo senso ben più che appendici, rappresentano il compimento visivo di ciò che sentiamo, sono la provenienza e la destinazione delle intuizioni. La loro forza sembra a tratti soverchiare la canzone declassandola a colonna sonora, un aspetto – la “presenza debole” delle canzoni – che fu sottolineato da molti all’epoca come un difetto, e ammetto che al primo impatto lo pensai anche io. A dirla tutta, il confronto con la “vecchia” Polly mi sembrava impietoso. Ma in pochi ascolti la situazione si rovesciò: nel senso che quel diverso peso specifico, quel quid di vaghezza obliqua, iniziò a sembrarmi organico al nuovo corso, una caratteristica che con gli anni si è rivelata decisiva.

Oggi, un decennio più tardi, l’ascolto conserva infatti quella pregnanza radente, la capacità di scomodare temi contingenti con piglio assertivo ma lieve, galleggiando sull’inquietudine col passo lungo della Storia. Rispetto agli anni Dieci che hanno visto il rock sempre più defilato rispetto ai temi caldi, sempre meno capace di farsi carico del presente, Let England Shake è stato un’eccezione, una palpitante anomalia. È un ottimo disco, con però un demerito fondamentale: ha fatto storia a sé, non ha avviato nessun processo imitativo, ha costituito un precedente cruciale solo per la sua autrice, che cinque anni più tardi avrebbe concesso un ottimo bis con The Hope Six Demolition Project.

E questo ci porta a credere che i tempi siano maturi per un suo nuovo disco, per un altro sguardo sul mondo. Possiamo sperarlo, Polly Jean?

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