Utenti o ascoltatori?

Il terzo weekend autunnale è stato generoso per quanto riguarda le uscite discografiche. Detto degli ottimi ritorni dei DIIV e di Angel Olsen, sono altri due gli album che hanno catturato la mia attenzione: uno è Ghosteen, il nuovo di Nick Cave, l’altro è Ode To Joy dei Wilco. Inutile dire che si tratta di lavori diversissimi di due band – Cave coi “suoi” Bad Seeds, Jeff Tweedy coi “suoi” Wilco – con pochi punti di contatto stilistici. Ribadisco: i due dischi sono concettualmente tanto caratterizzati quanto distanti.
Ma quest’ultimo aspetto è anche il trait d’union tra le due uscite: se Cave concepisce un’elaborazione del lutto traslata in un territorio fiabesco, una lapide trascendente che ha la forza di smarcarsi dal particolare per affrontare il tema – universale – della morte e dell’impronta di chi muore in chi resta, Tweedy focalizza la scrittura sull’erosione degli affetti e delle motivazioni nella generale volatilità dei legami e dei valori, uno scenario in cui l’individuo sembra destinato a capitolare per sfinimento.

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62 anni per Cave, 52 per Tweedy, entrambi responsabili pressoché unici della scrittura dei pezzi, leader totali – benché Tweedy apparentemente più introverso e, come dire, stropicciato – che conoscono bene l’importanza di stemperarsi nella band quando occorre confezionare gli “abiti” sonori.

È appunto il modo in cui i due autori hanno concepito le rispettive ultime uscite – mettendo in gioco la parte vulnerabile di sé, esponendo le ferite aperte dell’anima – a stabilire una connessione profonda tra Ghosteen e Ode To Joy. Due lavori che non si preoccupano di gratificare l’ascoltatore, concedono poco o nulla all’immediatezza, al contrario costituiscono traccia dopo traccia un percorso denso e intenso, coerente col quadro complessivo. Se ha senso parlare di concept album nel caso di Cave, con i Wilco ci avviciniamo soltanto, ma in entrambi i casi possiamo senz’altro dire che ogni traccia suona come suona perché l’album che la contiene impone quel suono, quel mood, un vero e proprio – appunto – “abito” sonoro.

Un aspetto interessante, a parte i due dischi in sé (e a parte il fatto che siano più o meno riusciti), è il significato che assume la loro pubblicazione (casualmente in contemporanea) rispetto a ciò che gli ascoltatori (utenti?) sono disposti oggi a concedere in termini di attenzione, ovvero dal punto di vista del “lavoro” necessario a entrare in sintonia con questa dimensione espressiva complessa, problematica. Dirò subito che ho scritto questo post sulla scorta di giudizi sui due dischi letti in rete, sentenze tranchent del tipo: “noioso”, “pesante”, “due palle”, fino all’iperbolica “una mattonata sui coglioni”. Opinioni del tutto accettabili e lecite, ci mancherebbe, pure se spesso accomunate da scarsa disponibilità all’approfondimento (qualcuno ha sostenuto di “non essere andato oltre la terza traccia”). Quello che ho provato leggendole è una sensazione laterale: che oltre ai giudizi di valore su Ghosteen e Ode To Joy ci raccontassero qualcosa su chi quei giudizi li esprime.

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Non è certo la prima volta che morte, depressione, perdita e abbandono vengono scelti quali temi predominanti di un disco rock (vedi i casi di Bowie con Blackstar, Leonard Cohen con You Want It Darker, Marianne Faithfull con Negative Capability, per non dire dei celebri American Recordings nei quali Cash ha reinterpretato pezzi altrui con lo sguardo piantato in quello della Triste Mietitrice). In casi del genere, la gravità dei temi ha spesso conseguenze estetiche (stilistiche, formali) sulle sonorità e sulle atmosfere, determinando per l’ascolto una effettiva “pesantezza”. Ok, ma – per citare il mitologico Doc di Back To The Future: “problemi con la gravità?”.

Comunque sia, l’attualità impone di considerare un elemento nuovo: mai come oggi abbiamo la possibilità di ascoltare e riascoltare senza la pre-condizione dell’acquisto. Lo streaming mette infatti a disposizione i dischi – più o meno tutti – nel momento in cui escono, vale a dire che, in un certo senso, con lo streaming hai già acquistato l’utilizzo del disco ancora prima che esca. Non devi “assaggiare” per capire se vale la pena investirci soldi, il disco lo hai già, fa parte dell’ecosistema sonoro in cui vivi. Devi solo scegliere se ascoltarlo quel po’ di volte necessarie a “entrarci” oppure no.

Tornando a Cave e Tweedy, entrambi hanno già dimostrato in passato che per loro proporre album più “difficili” – o “pesanti”, se preferite – non rappresenta affatto un problema. Coincidenza vuole che Ghosteen e Ode To Joy siano tra i lavori più complessi, meno accomodanti e sostanzialmente poco vendibili della loro carriera. Sulla scorta di questo dato verrebbe quasi da pensare che, adesso che il numero di copie vendute ha smesso di rappresentare un parametro significativo – al punto che comunque (quindi) un tour può prescindere dall’esigenza di promuoverlo, vedi anche i casi recenti di Thom Yorke e Flaming Lips – l’artista (soprattutto se già affermato) si senta meno vincolato e quindi più libero nei confronti di ciò che pubblica.

Si tratta soltanto di un’ipotesi sbocciata da una sensazione, certo, ma se ci fosse qualcosa di vero la palla passerebbe all’ascoltatore, che verrebbe chiamato come non mai ad assumersi la responsabilità del proprio ruolo, a considerarne criticamente le conseguenze sulla propria e altrui vita, a guardarsi dalla minaccia di un “eccesso di catalogo” che rischia di sparigliare l’attenzione (più che un rischio, una certezza) ma che in ogni caso non deve, non può rappresentare un alibi per giustificare giudizi frettolosi.

Per Sentireascoltare ho recensito Ode To Joy, che ho apprezzato molto dopo un primo ascolto fatto di tedio e blanda irritazione, ma che pure mi ha lasciato il prurito dei lavori ben strutturati, e la voglia di riascoltare. Non ho recensito invece e non recensirò Ghosteen, sul quale ho comunque maturato un’idea: come minimo è un disco che chiede di fare un passo indietro, di osservarlo da più angolazioni e di non sottrarsi se si avverte il bisogno di riconsiderare il ruolo e il senso di un disco pop-rock sia per il musicista che per l’ascoltatore.

Ascoltatore: ecco la parola chiave. Riascoltare: eccone un’altra. Rendersi disponibili. Amare, di un disco, anche la sfida che ti lancia, gli ostacoli che dissemina lungo la strada per raggiungergli il cuore.

E una domanda, su tutte: siamo utenti o ascoltatori?

P.S.

Mentre finivo di scrivere questo post, sulla celebre newsletter The Right Hand Files di Nick Cave compariva questo:

Curioso, perché in questi giorni sto leggendo Let’s Go (So We Can Get Back), l’autobiografia di Tweedy, che nel retrocopertina riporta questo estratto:

Probabilmente i legami tra Nick Cave e Jeff Tweedy sono più numerosi e scoperti di quanto pensassi.

14 commenti

  1. Uno di quei post minuzioso e articolato che può essere solo puro nutrimento per chi come me cerca sempre nuove emozioni. Callagher lo adoro anche se mi accompagna dolorosamente per la perdita di mio padre. Cave mi fa entrare in un labirinto che mi porta davanti a nessuna via di fuga dalla spiritualità interiore … io do una terza optione al tuo post… “percettori” perché secondo me c’è anche chi “sente” percepisce il messaggio intimo della musica e dei suoi “creatori”. Sarò un po’ … folle?

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  2. Prendilo come un pensiero estemporaneo, che avrebbe bisogno di maturare nella testa, quindi lo butto così come viene: forse ci si è concentrati troppo sulla marginalità del rock , sul ruolo decentrato dell’artista, sul peso (o leggerezza) che ha la musica riveste oggi. E se fosse invece l’ascoltatore il discriminante attivo per ridefinire le posizioni della musica? Se fosse grazie a questi dischi non immediati -ma affascinanti- l’esplosione degli stimoli per spiazzare un mercato discografico che ha accantonato ogni velleità artistica? 🤔

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    • Belle domande. 🙂
      Il senso del mio post è anche questo: non abbiamo alibi di fronte allo streaming, solo la nostra disponibilità o meno ad ascoltare. Poi, se un disco è velleitario o proprio brutto, ok. Ma dobbiamo capire che l’unico antidoto alla superficialità dell’ascolto e quindi del giudizio siamo noi. È sempre stato così, ma oggi più che mai. Viviamo in un ecosistema sonoro che non ammette lacune (teoricamente, ok: nessuno può ascoltare TUTTO). E, liberi (quasi) dal vincolo dell’acquisto, dobbiamo essere bravi a modulare gli ascolti. È tutto molto complesso e in divenire, ma Ghosteen e Ode To Joy ci dicono proprio questo: i musicisti sono pronti, lo hanno capito, hanno capito che si può alzare l’asticella. E noi?

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  3. Cave lo prenderò fisicamente a novembre. Non riesco ad ascoltare lo streaming. Generalmente mi converto i cd e vinili (ho trovato un sistema facile e comodo) in mp3, che metto in una chiave usb. Lo scopo finale è di ascoltare in automobile dove passo 2 ore al giorno di vita, salvo il telefono che suona e devo rispondere. Tutto il commento per dire come sono maggiormente ascoltatore. Su Cave? Mah devo entrarci perché sebbene abbia tutto gli ultimi lavori con il violinista non mi hanno preso.

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  4. […] Mi preme precisare: ho nostalgia per i tempi del vinile, della cassetta, del CD. Il ricordo delle difficoltà per entrare in possesso di un disco, della scarsità di informazioni, del nugolo di sensazioni che provavo sfogliando la rivista cartacea appena comprata in edicola, del misto di frenesia ed eccitazione che mi attraversava quando finalmente passavano in radio il singolo in anteprima, tutto questo mi commuove. Ho 50 anni, di cui 36 passati ad appassionarmi di musica rock nelle sue varie declinazioni: come potrei non commuovermi? […]

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