PJ Harvey – To Bring You My Love (e altre maschere)

Il 27 febbraio del 1995 usciva To Bring You My Love, terzo album di Polly Jean Harvey, quello che più di altri seppe definirne la dimensione nell’immaginario collettivo (con riflessi anche equivoci e riduttivi, tipo la nomea di “Nick Cave al femminile”). Dopo due lavori impetuosi e sferzanti come Dry e Rid Of Me, le nuove canzoni azzardavano intrecci sonori più complessi e articolati, ferma restando l’ossessione blues ventrale, svolta che si rifletteva nella ricercatezza del look, in quell’eleganza languida e insidiosa, decadente e fatale. Lo scarto rispetto alla ragazza ispida e basale dei primi due lavori era sconcertante: a ben vedere, si trattava di una maschera, utilizzata – come tutte le maschere – col preciso scopo di nascondere e allo stesso tempo rivelare.

Ne indosserà altre, Polly Jean. Quella urbanizzata e spaesata di Is This Desire?, quella aggressiva e stilosa di Stories From The City, Stories From The Sea, quella provocante e trafelata di Uh Huh Her, quella dell’implosione barocca altezza White Chalk… Ognuna di queste maschere era il prodotto di un’elaborazione espressiva profonda, il segno della strada percorsa. To Bring You My Love fu la tappa che per prima fece intuire l’ampiezza di un percorso che avrebbe visto la ragazza del Dorset raggiungere progressivamente il cuore tumultuoso dell’immaginario metropolitano e ritorno, una parabola che si è conclusa per aprire una fase nuova, di apertura e consapevolezza, da Let England Shake in poi.

Di seguito una breve recensione di To Bring You My Love che ho scritto qualche anno fa su Sentireascoltare.

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Come è tipico di tutte le carriere “importanti”, a un certo punto arriva il disco che conferma, potenzia o smentisce. Nel caso di To Bring You My Love accadono tutte queste cose. Nel migliore dei modi. Polly si sposta, trasloca in uno status nuovo, muta la pelle armonizzandosi allo status di matrona d’una stirpe antica e maledetta. È Alice che durante il viaggio oltre lo specchio incontra la maturità, raccoglie il sangue nell’urna e compone la propria “persona”. Reclutati Flood e il vecchio amico John Parish (assieme ai quali co-produce il disco), ingaggiato il “seme cattivo” Mick Harvey, adottato un impatto estetico raffinato e decadente – vedi la languida posa preraffaelita in copertina ed il raso rosso degli abiti vamp (per lo sconcerto dei fan) – sembra che Polly tenti di incendiare le consuete polveri aggiungendo additivi teatrali e umori moderni, definendo una cortina iconica sempre più spessa che la rivela e la nasconde allo stesso tempo.

Conseguentemente, l’ossessione blues-rock sembra consumarsi in un’atmosfera da vivisezione emotiva, destrutturazione psichica-archetipica (e quindi – al solito – mitologica) e ricostruzione accurata e accorata (organi, vibrafoni, percussioni d’ogni ordine e grado, archi). Una sorta di iperblues lancinante e carezzevole che racconta la femminilità violata, la musicista preda di un formidabile circolo vizioso stilistico (da spezzare), l’immagine massmediatica sempre più aliena a se stessa.

Il vecchio e il nuovo in Polly Jean toccano lo zenit, si ridefiniscono a vicenda, sublimando l’impossibilità dell’uno e la necessità dell’altro. La “vecchia” Harvey portata a implacabile compimento è tanto la travolgente Long Snake Moan – sovraccarica di minacciose metafore sessuali – quanto l’appassionato romanticismo di C’mon Billy, per non dire della cavernosa title track o della crudele Down By The Water. Il “nuovo” si presenta come una ridda di ipotetici umori dal tasso urticante già elevato, tempesta interiore le cui avvisaglie germogliano dai cincischi vischiosi di I Think I’m A Mother (dove sembra la nipotina di Tom Waits in overdose di valium) o dalla morbosa litania di Teclo (in cui convergono gli struggimenti del Nick Cave più sordido).

Su questi sostrati, come sul pastoso languore della conclusiva The Dancer e sull’acidità robotica di Meet Ze Monsta, si innesteranno i costrutti sonori degli episodi futuri. Che non tarderanno ad arrivare.

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