Lungimiranza (ovvero: degli sbagli che ho fatto e che farò)

Un tempo – almeno fino al 2004 – ero convinto che Bugo fosse un genio o qualcosa del genere. Pronosticavo per lui un futuro importante, roba da scomodare paragoni con calibri tipo Rino Gaetano o Ivan Graziani. Quello che è accaduto da Sguardo contemporaneo (il suo quinto album, correva l’anno 2006) in avanti ha però logorato quella mia convinzione, fino a farla crollare. L’ultimo disco, che ho recensito qui, sarà probabilmente il suo più venduto di sempre grazie alla celebre pantomima sanremese con Morgan e a un itpop con declinazioni “bughesche” neanche troppo marcate: tutto ciò ovviamente ha ben poco in comune con quanto dimostrato nei primi quattro lavori, fino a quel Golia & Melchiorre che mi convinse definitivamente riguardo al talento basale, sfaccettato e sconcertante del cantautore/rocker piemontese.

Insomma, lo ammetto: su Bugo non ci ho preso. Ho sbagliato di brutto. Ma non rinnego quel pronostico, che all’epoca era secondo me del tutto giustificato*. Voglio dire, quattro ottimi album dal 2000 al 2004: La prima gratta, Sentimento westernato, Dal lo fai al ci sei e Golia & Melchiorre. Ripeto, quattro ottimi album: in quanti possono vantare un inizio di carriera del genere?

A dirla tutta, se sto scrivendo questo post è perché la delusione procuratami da Bugo mi ha fatto ripensare alle molte volte in cui mi sono sbagliato (o, se preferite: “fatto trascinare dall’entusiasmo”). Il fatto è che certi dischi non mi lasciavano scampo: senza alcun dubbio davanti al musicista o alla band di turno si dipanava un futuro inevitabilmente luminoso. Qualche tempo dopo mi capitava di posare lo sguardo sulla costola di quel certo disco che avevo ormai dimenticato e subito venivo investito da un senso di profondo sbigottimento misto ad amarezza: cos’era accaduto a tutta quella luminosa preveggenza?

Nei giorni scorsi mi sono divertito a rileggere alcune vecchie recensioni di album che mi avevano fatto calare sul piatto una lungimiranza rivelatasi, come dire, incauta. Che comunque, lo avrete capito, non rinnego.

Ne riporto qui sotto tre. Se vi interessano, chiedete pure. Ne ho altre.

***


Transgender – Mey Ark Vu (Trovarobato/Audioglobe, 2006)


Gli imolesi Transgender sono un laboratorio aperto a mille voci ed influenze, ad una misteriosa, selvaggia libertà espressiva. Un fantasmagorico patchwork di stili (blues, prog, folk, wave, electro, post, psych…) su cui zampilla un idioma nuovo, sintesi balcanizzata di italiano, francese, inglese e chissà cosa. Col terzo fatidico album il troppo che rischiava di stroppiare si sfronda puntando con decisione la wave progressiva degli Stranglers e l’art-rock esoterico di Mike Patton, concedendosi momenti di palpitante sospensione, senza per questo rinunciare alle loro tipiche scorribande allucinanti, vero e proprio rimbombo di quest’epoca tragica e infame.

(Gli ottimi Transgender, autori anche del formidabile Sen Soj TrumàS uscito per Snowdonia nel 2003, si sarebbero sciolti pochi mesi dopo la pubblicazione di questo disco)

Mauve – Kitchen love (Canebagnato, 2008)


Un trio da Verbania che debutta gettando cuore e cervello oltre le cosiddette rosee aspettative. Facendo, per quel che mi riguarda, il botto. La proposta sonora bazzica con passione e disinvoltura le palpitazioni pop di derivazione wave, trepidante impellenza emocore, venature dark e sbrigliata allure brit, lasciando baluginare sullo sfondo quel che resta del post-rock. Impastano Pixies e New Order, i Blur più allampanati e certa melensaggine Alan Parson’s Project, strali The Cure e omeopatie L’Altra. Per non dire di quella 88 che ti fa pensare all’anello mancante tra Rapture, Interpol e Afghan Whigs. Il tutto come se fosse la cosa più semplice del mondo. Si chiamano Mauve, sono due chitarristi e una batterista alle prese anche con violino, basso, glockenspiel e samples (più un paio di amici a dare una mano alle tastiere). Sono capaci di sorprenderti con grazia e arguzia, di avvincerti con impeto (il bocconcino Sonic Youth di Never Regret) e ricercatezza (una Last B fiabesca e sonnacchiosa, testo ispirato da Cesare Pavese). Per intensità, ispirazione e varietà, Kitchen Love è uno dei migliori esordi mi sia capitato di udire in tempi recenti.

(I Mauve hanno publicato un altro album nel 2011, The Night All Crickets Died. Da allora non ne ho saputo più nulla)

El Topo – Pigiama Psicoattivo (Off/Still/Audioglobe, 2008)

Se volete fare un torto a questo disco, catalogatelo nello scaffale del post-rock. Cui può ricondurre per il peregrinare strumentale tra assedi insidiosi, propaggini liquide, matematiche astruse, geometrie allampanate in spampanamento free. Ma a muovere gli El Topo è un estro ben più dilatato, ti fanno capire di aver avviato un discorso imprevedibile e perciò eccitante, nutrono la caldaia coi più diversi combustibili (psichedelia, jazz, etnofunk, electro, exotica, contemporanea…) che tanto il fuoco se li mangia e l’energia sprizza. Energia controllata, veicolata, compressa, espansa, vaporizzata, illanguidita. Mandata in circolo con giri larghi che trasfigurano afro beat, elisir lounge a lubrificare gorghi minacciosi dub, allusioni spacey sotto sedativo electrosoul. È un suono vischioso, ti sfugge quando provi a stringerlo, come quando a forza di morbidezze virali ti vengono in mente dei Tortoise che sorseggiano un cocktail Umiliani oppure i fantasmi di The Who e Ry Cooder in una centrifuga fusion-world à la Peter Gabriel. Ogni insidia, anche la più sconcertante, viene assolta da un alone nonsense che scaccia sul nascere ogni tentazione eccessivamente pensosa. Così che alla fine ti attacchi al nastro del divertimento e ti sta bene quel filo d’inquietudine che lo ricama come un agguato mimetizzato. Fa parte del gioco. Che è appena iniziato.

(Gli El Topo erano un duo composto dal chitarrista Adriano Lanzi e dal bassista Omar Sodano. La loro parabola si spense poco dopo la pubblicazione del disco d’esordio. Lenzi prosegue la carriera come chitarrista. Sodano è deceduto in seguito a un grave fatto di cronaca nel 2014)

***

*simili errori di prospettiva li ho commessi nei confronti di scrittori e… giornalisti. Ma non è il caso di fare nomi. Se le penne erano più affilate delle spade, le tastiere possono rivelarsi più distruttive di un’atomica

12 commenti

  1. Ciao, perché dici che hai sbagliato? Quei primi quattro dischi erano di per sé geniali e pieni di idee. Poi ha provato una svolta meno lo-fi e più prodotta, che io personalmente non ho seguito, mi sono fermato all’uscita del singolo “Il giro giusto”. Questa sua seconda fase può non piacere, ma non toglie valore alla prima.

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    • Lo sbaglio si riferisce al pronostico: nel 2004 ero davvero convinto che Bugo avrebbe lasciato un segno importante sull’immaginario in quanto Bugo. La ricerca del successo negli album successivi invece non ha avuto esito. Bugo è arrivato a Sanremo da perfetto sconosciuto e quello che sta ottenendo adesso è grazie a canzoni (e performance TV) che con quel vecchio Bugo hanno ben poco a che fare.

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  2. Rispondo (con molta provocazione) con Canzoni dell’Appartamento, un disco che all’epoca amai moltissimo e su cui riversai molte giovanili aspettative. Non un brutto disco, anzi un buon album (zone d’ombra e targa Tenco a parte), ma lungi dall’essere quel capolavoro che nel 2003 mi era parso.

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  3. Ah ah ah. Quante ne ho, pure io, di storie così! Non rinnego (quasi) nulla sui giudizi, ma per fortuna da parecchio ho smesso di lanciarmi in previsioni su vasta scala. Comunque su Bugo non hai sbagliato: è semplicemente lui che è diventato un’altra cosa, cosa anche ipotizzabile ma della quale non si poteva essere certi.

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    • Ma infatti, è inevitabile. È anche giusto prendere cantonate sulla spinta dell’entusiasmo. Il contrario – sottovalutare un ottimo disco – è molto peggio.

      P.S.
      ti confesso che ho scritto questo post anche come risposta a un vecchio comune collega che, diciamo così, non ha digerito benissimo la mia recensione di Bugo. 😉

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