Desiderio

I tempi erano maturi per un vero e proprio cambio di rotta. Così, individuato lo zeitgeist nell’attrito tra due epoche, nella compenetrazione stilistica e tecnologica dove le radici si inerpicavano in un domani espanso e ignoto, Polly Jean Harvey azzardò Is This Desire? Album che deve molto alle ugge ruggenti del trip-hop bristoliano, in primis dell’amico Tricky (con cui aveva appena collaborato in Angels With Dirty Face), senza però tradire l’amore primo, il blues. Blues colto nel riflusso, dissanguato, sovraesposto e incrudito, ma pur sempre blues (vedi le cupe ossessioni circolari di Electric Light e The Garden). Una vera e propria continuità nel cambiamento, come testimonia anche la conferma dello staff (Flood, Mick Harvey, John Parish) a cui si aggiunge il multistrumentista Eric Drew Feldman, già al lavoro con Captain Beefheart, mito personale di PJ.

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Scrittura, interpretazione e arrangiamento vivono quindi una tensione implosiva, tra grugniti in slow-motion (My Beautiful Leah) e scudisciate digitali (Joy), dolenti crescendo (la title track, il sordido melodramma di Angelene) e languide cospirazioni di piano e tromba (The River), melme cibernetiche frastagliate da brezze jazzy (The Wind) e un singolo sì commestibile ma irrimediabilmente indolenzito (A Perfect Day Elise), mentre The Sky Lit Up e No Girl So Sweet consumano con una certa brutalità lo zenit energetico della scaletta.

Una stessa febbre in ogni canzone. Anime illuminate dall’interno, schegge di sensazioni, stralci di pensiero minimo, una pietà muta ad aleggiare ovunque, unificando ritratti ora malinconici, ora disperati, ora brutali. Scenari che si squadernano aprendosi all’urbanità senza appigli, in cui Polly sembra smarrirsi come Alice nel Paese delle Atrocità. Tuttavia consapevole di doverlo fare, per non perdersi davvero.

Il 28 settembre del 1998 usciva Is this Desire?

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