Salvezza e dannazione: Auto da fé di Elias Canetti

Cerco sempre di portare con me un libro. Lo faccio anche se non sono certo del tempo che potrò dedicargli, tipo quando dovrò stare in fila alle poste o in sala d’attesa dal dottore (cinque minuti? Un’ora?). Il punto però non è quanto potrò leggerne: il libro mi serve anche per tracciare un perimetro, per reclamare quel tempo e quel po’ di spazio come mio.

In un certo senso, il libro è anche il simbolo fisico – tangibile, concreto – di un me fuori di me. È un guscio, una scorza protettiva, un modo per dare vigore ai patti che mi permettono di pensarmi nel mondo mentre osservo (rispetto, applico) i codici sociali, le convenzioni, le regole. Leggere mi piace per molti motivi, uno dei quali – non il primo, ma neppure l’ultimo – è la capacità di strapparmi alla forza centripeta della connessione, della condivisione come surrogato dell’individuazione. Quel libro che porto con me stabilisce quindi il modo in cui penso me stesso nel ritaglio di tempo e di spazio che gli dedico. Quel libro sono io in una porzione di spazio e tempo.

Le righe precedenti le ho pensate, guarda un po’, in una sala d’attesa (per la cronaca: un’attesa abbastanza breve, neanche venti minuti), tra una pagina e l’altra di Auto da fé di Elias Canetti. Un romanzo eccessivo, farneticante, lucido, disperato, comico, crudele, grottesco, sempre sul punto di crollare sotto la propria stessa ambizione, di sfrangiarsi e perdersi tra le troppe direzioni, di collassare nel cuore buio dei personaggi, di farsi ingoiare dalla spudorata voracità delle ossessioni.

Il protagonista è Peter Kien, “il più grande sinologo vivente”. Vive in funzione della sua specializzazione e quindi della sua vastissima cultura, ovvero della sua estensione fisica: dei libri. Kien è definito dalla sua stessa devozione per i libri, che si rivela inversamente proporzionale alla capacità di stringere relazioni sociali. La sua sterminata biblioteca è il lui fuori di sé e il lui in sé (al punto da possederne una “copia” mnemonica, il che fa di lui un posseduto, un invasato). Quando Kien è costretto a relazionarsi, c’è sempre un diaframma tra lui e gli altri, un codice con cui li decifra, con cui li giudica. C’è un passaggio pazzesco, quando dialoga con Fischerle, che ha appena incontrato: mentre lo ascolta, sembra “interpretare” il suo interlocutore come si farebbe con un testo, con un approccio molto meno empatico che filologico. Di fronte al soliloquio fluviale di Fischerle, Kien lo giudica, ne scolpisce i contorni espressione dopo espressione, lemma dopo lemma. E pensa:

Li riconoscerete dalle loro etimologie.

Le tre parti in cui il romanzo è diviso descrivono una discesa nel delirio, giù negli inferi di una psicosi, ma anche altrettanti passi – lucidi, razionali – di un processo analitico: “Una testa senza mondo”, “Un mondo senza testa” e “Il mondo nella testa”. E gli antagonisti? Therese, il già citato (formidabile) Fischerle, il terribile portiere Benedikt Pfaff, il fratello George: ognuno un mezzo di contrasto, una manifestazione umana portatrice di qualche insana avaria esistenziale contrapposta alla sedicente autorevolezza di Kien. Se quest’ultimo viene logorato progressivamente dalla relazione con gli altri, fino ad approdare a un vero e proprio crollo psichico, comunque i suoi “avversari” non sono certo più solidi e sani di lui: ognuno sconta un difetto dell’anima, una malattia esistenziale provocata dall’ossessione di imporsi sul mondo, da cui la metastasi della frustrazione, che non ammette empatia e si fa largo a colpi di crudeltà.

Gli uomini sono fatti interamente di punti deboli

Una lettura critica abbastanza condivisibile indurrebbe a interpretarlo come un romanzo sul pericolo dell’autoreferenzialità, di un’epidemia di esistenze chiuse in se stesse, prive di empatia, di pietà. Una patologia contemporanea (valeva negli anni Trenta del Novecento, vale ancor più e a diversi livelli ancora oggi) che la cultura – l’ossessione per i libri o una qualunque altra ossessione “culturale” – non può alleviare anzi rischia di amplificare, avvolgendo il soggetto in un bozzolo pneumatico, in una monade/bolla infestata di presenze e in realtà (perciò) impenetrabile.

Ma interpretare – ovvero tracciare un perimetro di senso attorno a – un romanzo così grande, proteiforme e batterico significa in qualche modo mutilarlo. Così come chiudere gli occhi sui suoi difetti, sulla sua tendenza all’eccesso magmatico che ingolfa il ritmo, sulle sacche narrative che ti respingono quando sembrano averti appena risucchiato.
Auto da fé è come un albero problematico, cresciuto troppo e per troppo tempo, dai rami intrecciati in una trama fitta, ostile. I suoi frutti sembrano nascondere un’insidia. Coglierli non è semplice, eppure è una vera tentazione in questi tempi affamati di autenticità, di esperienza. Ecco quindi un frutto/interpretazione che mi piace cogliere: è, tra le altre cose, un romanzo sulla necessità e sul pericolo delle ossessioni, su come possano salvarti e dannarti senza che sia umanamente possibile capire la differenza.

I romanzi sono dei cunei che un autore con la penna in mano insinua nella chiusa personalità dei suoi lettori. Quanto più precisamente egli saprà calcolare la forza di penetrazione del cuneo e la resistenza che gli verrà opposta, tanto più ampia sarà la spaccatura che rimarrà nella personalità del lettore. I romanzi dovrebbero essere proibiti dalla legge.

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