Gli Eels, i Flaming Lips e il Grande Rientro

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Ancora avvolto nella nebbia di un risveglio problematico, leggo un post su Facebook che mi sembra, come dire, adeguato: “il primo settembre è il lunedì dell’anno“.

Ci metto qualche istante a rendermi conto che il primo settembre in realtà era ieri, che questa mattina in cui annaspo per recuperare lucidità mentale è ormai il 2. Va detto però che si tratta di un lunedì, e che – a giudicare dalla fatica cementizia che m’inchioda – potrebbe trattarsi davvero del LUNEDI’, quello che idealmente darà l’abbrivio alle sacche ricursive di cupezza e depressione da qui all’incipiente eternità autunno/inverno.

C’è un altro motivo che giustifica – credo – la mia spossatezza: la sera di domenica 1 settembre sono stato al concerto di Eels e Flaming Lips. Intendiamoci, non sono più tipo da bere quelle cinque birre di troppo – o chissà cos’altro – tra il prima, il durante e il dopo concerto. Da buon adulto e quasi anziano, sono tornato a casa presto e abbastanza sobrio. Prima delle due avevo consegnato corpo e spirito a un sonno ristoratore (o, se preferite, terminale). Tuttavia, il risveglio è stato traumatico.

Cosa può dire un tipo di mezza età di un concerto come quello? Cosa gli resta dentro? Due band che hanno cavalcato l’apice tra anni Novanta e primi anni Zero, diversissime per la proposta espressiva, per la storia, le premesse e gli esiti, chiamate a dare un senso a una domenica sera destinata a rappresentare l’ultima simbolica impennata dell’estate 2019: come avrei potuto resistere al richiamo? Impossibile. E bene ho fatto a non resistere.

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Certo, tra le due proposte non c’è stata gara, nel senso che sembravano giocare in due campionati diversi, forse perfino discipline diverse. Gli Eels, col loro crudo, sardonico ed essenziale teatrino rock, mi sono piaciuti molto. Più tardi però i Flaming Lips hanno travolto tutto: ecceduta la dimensione del concerto, si sono fatti evento cataclismatico e gioioso, un vortice anzi un uragano kitsch iperbolico. Eppure, mi è sembrato che uno stesso filo rosso attraversasse le due esibizioni, il senso di una ricerca assieme tenace e disperata di validi motivi per rimanere (essere) se stessi malgrado l’assedio ostile delle brutture, del grigiore, delle competitività, della precarietà.

Nelle tre ore complessive di musica c’è stata musica e c’è stato altro: c’è stata la presenza incombente di quel “tutto il resto” che ci tocca vivere, che abbiamo scelto di vivere (tra le due cose non c’è poi chissà quale differenza), che ci definisce istante dopo istante e a cui la musica – quella musica – ci spinge a opporre resistenza, nel tentativo abbastanza disperato però necessario di ritagliare uno straccio di sagoma da poter chiamare “io”. (Per ulteriori dettagli, ho scritto una recensione che potete leggere qui).

Insomma, ho ottenuto ciò che volevo: mi sono divertito e con l’occasione ho ricordato a me stesso alcuni motivi per cui continuo ad amare questa cialtronata impagabile conosciuta come rock. Poi, certo, si fanno i conti col magone del giorno dopo. Poi, certo, si va a sbattere contro il maledetto iper-lunedì. Contro il Grande Rientro. Il Bastardone. Che ho fronteggiato ricorrendo a tutti i calli sull’anima, agli automatismi emotivi, ai gesti che sanno consumarsi da sé.

Ogni tanto bisogna avere il buonsenso di fingersi automi. E quindi, con un bel cuore di latta e i pensieri pastorizzati, affrontare il tragitto, i semafori, quel po’ di coda, l’ufficio, la casella postale piena, il riprendere possesso, lo sfoltire, lo spuntare, l’inoltrare. E il telefonare, il digitare, il telefonare, il digitare. Finché – salvifica e ingannevole – non arriva la pausa pranzo.

Oh, la pausa pranzo. Esco a fare due passi per un trancio di pizza e per sciogliere qualche nodo più mentale che fisico. Infilo una mano nella tasca dei jeans, gli stessi che avevo ieri sera*. A quel punto, le dita sentono qualcosa. Afferro. Estraggo. Sono coriandoli, scorie dell’iperbolico baraccone messo in piedi dai Flaming Lips.

Ed ecco, ecco, in mezzo al grande Lunedì, arriva il momento: abbacinante, fugace, inconfondibile, è il momento in cui tutto quello che ho intuito, scorto, valutato, forse anche capito, diventa reale.

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*sì, per andare in ufficio ho indossato gli stessi jeans che avevo al concerto. Non sono più uno che si sporca ai concerti, sapete? Sono adulto, quasi anziano

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