Il Loner e la Band: la ruggine viva di Neil Young

Due anime: l’acustica e l’elettrica. Un conflitto: tra la dimensione dell’artista solitario – il Loner – e quella della band.

In Neil Young questa doppia oscillazione è viva e profonda fin da subito, riverbera in ogni canzone, disco dopo disco. In lui che si ritrova, per caso e per cocciutaggine, al crocevia del folk rock dei tardi Sixties come membro dei Buffalo Springfield. Ma tutto crolla soprattutto per l’attrito tra lui e Stills, più leader di quanto Neil potesse sopportare.

Il primo album da solista è eccessivo e sfocato, non azzecca i suoni urgenti, la direzione giusta: ma è puro Neil Young. Il secondo disco, Everybody Knows This Is Nowhere, con i Rockets da lui ribattezzati Crazy Horse (in onore del leggendario capo pellerossa), va oltre. Per molti versi, è già definitivo. Attenzione: è un lavoro intestato a Neil Young WITH Crazy Horse e non Neil Young AND Crazy Horse. Una differenza non da poco.

Gli anni Settanta passano tragici e meravigliosi. La consacrazione da solista, l’avventura formidabile con i CSN, i lutti e la depressione, un’ispirazione che arriva come una marea notturna lasciando sulla spiaggia capolavori, a cui seguono dischi ora epocali (On The Beach, Tonight’s The Night…) e ora frettolosi (Long May You Run, American’s Stars ‘n Bars…). Un decennio chiuso nel migliore dei modi: Rust Never Sleeps nel luglo del 1979, Live Rust pochi mesi dopo, il 19 novembre. Quest’ultimo, con le sue sedici tracce live, è una resa dei conti con la propria natura come minimo duale, scissa: da una parte l’acustico, dall’altra l’elettrico. Adesso c’è il Loner, più avanti la sarabanda vorticosa e ventrale con la band. Il miraggio e il delirio. La tradizione e la scossa. Come un Rothko atavico e terrigno. Come un Giano bifronte, lo sguardo duplice rivolto dentro e fuori la materia del rock (il suo cuore ribollente, la sua anima inafferrabile, e viceversa).

I complicati anni Ottanta di Neil Young si avventureranno lungo altre strade, finendo in sconcertanti vicoli ciechi (Life, Everybody’s Rockin’…) oppure scovando sentieri intriganti però tutto sommato marginali (l’elettronica di Trans, il RnB di This Note’s For You…). Chiuderà il “decennio edonista” alla grande con Freedom e se lo lascerà alle spalle accettando ancora una volta quell’antica, lancinante oscillazione: vale a dire, inaugurando i Novanta con lo sferragliare rustico di Ragged Glory prima e coi cartigli (semi)acustici di Harvest Moon poi. Una road map già tracciata con Rust Never Sleeps e Live Rust, da considerarsi il vero approdo poetico di un cantautore che ha saputo incarnare come pochi la complessità inafferrabile dell’individuo deciso a non smettere di cercare e cercarsi, di dare voce a tutte le voci annidate nella testa.

Hey hey, my my.

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