Commedia (dis)umana: Queste montagne bruciano di David Joy

In quanto laboratorio sterminato di contemporaneità, di conflitti e contraddizioni sulla linea del fronte tra passato e futuro, agli Stati Uniti va dato il merito di avere scrutato se stessi nel profondo, di essersi interrogati senza fare sconti al moloch luminoso e ingombrante del cosiddetto american dream. Lo hanno fatto in particolare i suoi narratori, da Poe a Mellville passando da Twain, Steinbeck, Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, O’Connor e via discorrendo, attraversando la beat generation per approdare ai Carver, ai Malamud e agli Yates, fino ai contemporanei De Lillo, McCarthy, Roth e Franzen, ovviamente solo per citarne alcuni. Nella loro opera c’è come una stessa tensione critica, declinata – va da sé – in forme e inclinazioni molto diverse, però col mirino sempre puntato al cuore di un interrogativo storico e universale: cosa significa vivere all’interno di un modello sociale così potentemente e costantemente reimmaginato?  

Negli ultimi anni in particolare molti scrittori USA hanno distolto lo sguardo dagli scenari metropolitani per rivolgerlo alle zone intermedie, al ventre disperso delle periferie come luogo di attrito tra connessione e disconnessione, tra simultaneo e differito, dove tradizioni e contemporaneità si fronteggiano e si compenetrano, simmetricamente spettrali. Nomi del calibro di Chris Offut, Jesmyn Ward, Jordan Farmer, Tiffany McDaniel, Kent Haruf, Willy Vlautin, Nickolas Butler, autori votati a un realismo tra il brutale e il laconico, alle cui opere credo si possa pensare come a una sorta di “comédie humaine” di questi anni complessi e precari. Alla compagine credo sia il caso di aggiungere David Joy, il cui quarto romanzo diventa oggi il primo tradotto in Italia grazie alla benemerita Jimenez (che presto pubblicherà il suo lavoro d’esordio Where All Light Tends to Go, tra l’altro in procinto di diventare un film).

Queste montagne bruciano è ambientato in North Carolina, stato di cui Joy è originario, durante l’autunno del 2016, quando – come ahinoi capita spesso negli ultimi anni – una serie di incendi devastò la zona degli Appalachi. I roghi però restano sullo sfondo, sono una presenza concreta e al tempo stesso metaforica, il perimetro di una scena in cui si consumano dinamiche aspre, spietate, svuotate di futuro. Il protagonista principale è Raymond, ex-guardia forestale alle prese con il dolore per la moglie strappata via da un tumore e con la devastante tossicodipendenza del figlio. Alla sua vicenda si intreccia quella di Denny, nativo pellerossa e anch’egli sempre più perso nel gorgo della dipendenza, incapace di rimettersi in carreggiata dopo un incidente sul lavoro. 

A queste due traiettorie primarie, Joy affianca quelle dell’agente federale Holland e dell’infiltrato Rodriguez, intenzionati a scoprire i meccanismi che regolano il giro di stupefacenti nella regione, un caso che si rivelerà ben più complesso e ramificato del previsto, coinvolgendo le stesse forze dell’ordine e il sistema dei casinò concessi in gestione alle popolazioni native. 

David Joy

Ne esce un noir paludoso che all’azione predilige l’elusione, all’adrenalina un’apnea emotiva che intride relazioni e prospettive, frutto guasto di un tessuto sociale logoro, sempre più sfilacciato e incapace di proporre fondamenta su cui costruire qualcosa di solido. Niente, neppure la vendetta in stile “farsi giustizia da soli” – vero e proprio topos dell’inestinguibile individualismo a stelle e strisce – è in grado di riscattare il senso di impotenza, quella sorta di afasia che si deposita su tutto proprio come la cenere che cade costante, sporca e impalpabile.

Lo stile essenziale non impedisce momenti liricamente suggestivi, che anzi costituiscono il cuore di un romanzo crudo e toccante, l’ennesimo e necessario squarcio sulla pelle di un presente che procede sul cammino del progresso lasciando dietro di sé scorie e relitti, vite private di tutto fuorché del capolinea.

Mentre Denny guidava, il mondo gli respirò contro, il fumo si diradò, l’ultima goccia di morfina si sciolse tra i suoi denti. Guardò nello specchietto retrovisore l’oscurità alle sue spalle, poi spostò lo sguardo e non si voltò più indietro. Le montagne lasciarono pian piano spazio alla pianura. Il faro si allungava fioco in avanti per pochi metri.

Il merito di Joy è fare luce sui danni fisiologici e tutt’altro che collaterali di un modello sociale tanto abbagliante quanto spietato, non ultimo per le conseguenze sull’ambiente, questo il macro problema, il mostro che ci assedia, tanto grande e incombente da sfiorare – paradossalmente – l’invisibilità. 

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