“Il sangue è più denso dell’acqua, e io ci stavo affogando dentro. Stavo affogando in quel sangue, e una volta toccato il fondo nessuno mi avrebbe trovato. Certe anime non vale la pena salvarle, pensavo. Ci sono anime di cui persino il diavolo non vuole sapere niente”

Carolina del Nord, anno 2009. La vicenda si svolge in un territorio generoso ma aspro appena al di sotto della Cherokee National Forest, tra piccole città come Franklin e grumi di paesi come Ellijay e Panthertown. Siamo in Appalachia, terra di agricoltori, pescatori ed evangelisti, dove chi studia lo fa per uscirne fuori, dove la metanfetamina è “un corpo vivo e vegeto”.
Il diciottenne Jacob McNeely ha abbandonato la scuola a due anni dal diploma. Non se la passa bene, incastrato com’è in una situazione familiare ostica, tra la madre tossica già oltre il punto di non ritorno e un padre anaffettivo e violento (che ascolta ossessivamente le canzoni di Townes Van Zandt, usandole anche per coprire dialoghi che altri non devono ascoltare). I due vivono separati, lei spegnendosi in una follia chimica che la ingoia giorno dopo giorno, lui ingegnandosi come meccanico ma solo per ripulire il flusso di denaro sporco che si guadagna come boss locale dello spaccio di crystal.
In questo quadro fin da subito nerissimo si intravede però una luce, fragile, fioca, ma in qualche modo potente: è la consapevolezza di Jacob, quella che lo ha spinto a troncare la relazione con Maggie per evitare di trascinarla nel proprio inferno. La ragazza, sua amica d’infanzia, è una studentessa modello, si è appena diplomata e progetta di andare al college. Jacob osserva la sua vita tenendosi a distanza, rimpiange le possibilità che si è lasciato alle spalle, rimpiange lei, ma capisce di non avere scelta. Si sente in trappola, risucchiato dall’orbita scura del padre, sapendo bene che è destinato a diventare chi non sente di essere.
In questo romanzo d’esordio del 2015, tradotto per la prima volta in Italia da Jimenez (che di lui ha già pubblicato l’ottimo Queste montagne bruciano), David Joy ambienta una storia cupa, asciutta e feroce nella terra dove è nato e vive. Percorre le strade, ascolta i rumori del bosco, scopre angoli desolati o incontaminati, traccia il perimetro di uno scenario in cui si consumano tragedie quotidiane, annidate nel cuore profondo della civiltà più avanzata del mondo occidentale, quasi ne fossero un ingrediente avariato ma necessario.
Per Jacob – sorta di alter ego di Joy, stando a quanto ha dichiarato lui stesso in una vecchia intervista – le cose si mettono fin da subito molto male. Prima rimane coinvolto in una resa dei conti che da incasinata diventa tragica per colpa dei due balordi scagnozzi del padre, poi si fa cogliere da un trabocco di rabbia e violenza di fronte alla sua ex: da lì è tutto un avvitarsi tra senso di colpa, paura e una strisciante, sordida apatia. Come se il destino gli stesse chiedendo di rassegnarsi, di accettarsi.
“Sentire cose come il dolore e la paura mi sembrava naturale. Ma non sentire niente mi faceva domandare cosa fossi diventato.”
Dove tende la luce è una catena di capitoli tesi sul filo di una prima persona asciutta, laconica, in cui pure avverti il rimbombo di un lirismo soffocato, quasi fosse il frutto di una battaglia tra due personalità sovrapposte ed esauste, di una coscienza sul punto di frantumarsi. Il futuro non è scritto, esiste sempre una forma di riscatto, ma non è detto che coincida con la salvezza: questo il carburante invisibile che fa girare il meccanismo narrativo, l’energia oscura che spinge Jacob a fare scelte che sembra in grado di compiere ma che gli sfuggono di mano come spettri, come obiettivi fuori portata.

Il perimetro di influenze letterarie è chiaro fin dalla citazione in esergo, firmata Cormac McCarthy, stella polare (nera) che galleggia in un campo gravitazionale William Faulkner e Flannery O’Connor, incrociando la traiettoria con le orbite più recenti dei Willy Vlautin, dei Chris Offutt, dei Nickolas Butler. Nomi questi ultimi che stanno dando vita a romanzi di deformazione, storie tese che esplorano la linea d’ombra tra marginalità e civiltà con la cassetta degli attrezzi del noir, tanto da costituire un rumore di fondo sempre più strutturato. Sono, potremmo dire, l’acufene che interferisce con l’innodia quotidiana di ciò che è efficiente e confortevole, sono la ruggine che corrode il piedistallo sotto ai valori positivi e agli obiettivi condivisi. Sono un monito, gli occhiali di John Nada che rivelano il marcio dell’alienazione, il vicolo cieco dell’inganno nella trama di promesse che ti spingono ad aderire al progetto collettivo. Che sarà pure un’allucinazione, ma resta il migliore esito possibile, l’unico scampolo di orizzonte a cui aspirare.
Vivere diventa quindi contrasto, l’attrito insostenibile tra due consapevolezze opposte. Perciò Jacob vive come sospeso, senza direzione, è una dinamo che accumula energia sorda, sterile. Dove tende la luce – con la sua tragicità coagulata e scoscesa – ci lascia in eredità una domanda: esiste davvero scelta tra una strada che porti altrove e affrontare quella curva alla massima velocità?
“In pochi minuti, morire era diventato semplice. Era vivere che mi faceva paura.”
P.S.
Di Joy e dei suoi lavori si stanno accorgendo a Hollywood: è infatti appena uscito in USA il film Where All Light Tends to Go, diretto da Ben Young e con nel cast attori del calibro di Billy Bob Thornton e Robin Wright. Lo attendo sui nostri schermi con una certa curiosità (e un po’ di apprensione).