Il dovere di scegliere: La valle dell’Eden di John Steinbeck

Dopo cento pagine mi ritrovo a contare almeno cinque personaggi memorabili, che per potenza e complessità potrebbero ognuno meritarsi un romanzo a parte. Impressionante, considerato che mi trovo a neppure un sesto del libro. Come mi aspettavo, proseguendo con la lettura ne incontro altri, così strutturati e incisivi da sembrare non solo vivi ma vissuti, “macchie umane” che la penna di John Steinbeck traccia sulla nostra memoria, dove si candidano a rimanere più o meno indelebili. 

Secondo le celebri dichiarazioni rilasciate all’epoca (1952) dallo scrittore di Salinas, quando progettò La valle dell’Eden capì che doveva considerare tutto quanto scritto fino ad allora come una sorta di preparazione a ciò che era destinato a diventare il suo capolavoro. L’affermazione potrebbe apparire ingrata, soprattutto nei confronti di un’opera come Furore, ma il respiro di La valle dell’Eden è in effetti più vasto, il quadro si allarga fino ad eccedere la cornice: le dinamiche interne ai personaggi e tra i personaggi, sulle quali agiscono la pressione del contesto storico, forze ataviche e una ricerca di senso trascendente, chiamano Steinbeck a una cura impressionante della caratterizzazione, che investe giocoforza anche le figure di secondo (un Will Hamilton ad esempio, o le sue sorelle Olive e Dessie) e terzo piano (il famigerato Joe Valery, lo sceriffo Horace Quinn, la maitresse Faye…).

In realtà ho trovato questa capacità di Steinbeck già evidente in uno dei suoi primi lavori, Pian della Tortilla (del 1935), che ho letto solo pochi giorni fa (ammetto di averlo pianificato). Si tratta di un romanzo decisamente minore rispetto a Furore (uscito solo quattro anni più tardi), per molti aspetti antesignano di Uomini e Topi (del 1937) in virtù di quel tono in bilico tra farsa e tragedia, ma il cui andamento rapsodico con rimandi al picaresco – quella specie di frammentazione programmatica, come se il racconto dovesse necessariamente scomporsi in più sfaccettature per cogliere il cuore sfuggente del quadro – mi ha ricordato più che altro Le avventure di Tom Sawyer (pubblicato quasi sessanta anni prima), simile lo sfilacciamento anarchico tra i protagonisti e la società, anche se ovviamente i ragazzini del romanzo di Mark Twayn hanno dalla loro l’alibi dell’età (ciò che spesso induce a relegarlo nel rango della letteratura per ragazzi, il che a pensarci bene non significa affatto svalutarlo). 

In Pian della Tortilla il vero protagonista è fin dal titolo un luogo, ovvero un quartiere di Monterey, i cui abitanti (i paisanos, ovvero i californiani originali) mettono in scena lo spettacolo tragicomico del conflitto tra volontà e destino, dopo la frattura operata dalla Grande Guerra nel patto tra individuo e società. Soprattutto, i personaggi che si radunano progressivamente attorno al protagonista Danny rivelano una tipizzazione complessa e risvolti altamente drammatici, capaci di attivare contrasti intensi col tono ironico del racconto. Pur non mancando l’intreccio e i relativi sviluppi, l’azione sembra consumarsi soprattutto nel mutare della tensione tra i personaggi: si veda su tutti il terribile capitolo del “caporale” e di suo figlio, con la tragedia che si consuma di lato, mentre i dialoghi sfogliano la margherita di illusioni vaghe, rimpallandosi fantasmi di volontà e valori inariditi, oppure la scorribanda finale di Danny, di cui non vediamo quasi nulla perché Steinbeck si limita a riferircela per bocca di testimoni, come se volesse spostare il fuoco sulle emozioni dei suoi amici, su come cambia in essi l’idea – il senso – di lui. 

Sono elementi e meccanismi che torneranno diciassette anni più tardi in La valle dell’Eden, trasfigurati da un processo di maturazione che elude quasi del tutto (ma non del tutto) l’aspetto umoristico, a vantaggio di un piano narrativo denso e di ampio respiro, che copre un periodo di oltre mezzo secolo (all’incirca dal 1860 al 1920) con un registro che sa essere solenne senza perdere mai lo sguardo ad altezza d’uomo, ondeggiando tra testimonianza biografica (una delle due famiglie, quella degli Hamilton, era in effetti quella della madre di Steinbeck) e invenzione. In ogni caso, l’azione è ridotta al minimo, ovvero si svolge quasi tutta nelle dinamiche di relazione tra i personaggi e – ribadisco – al loro interno.  

Non a caso i nomi rivestono un ruolo tanto importante: le iniziali dei fratelli Trask (Charles e Adam) e dei figli di quest’ultimo (Caleb e Aron) sono le stesse di Caino e Abele, vicenda biblica che si rivelerà cruciale per sciogliere il nodo poetico alla base del romanzo, ed è ancora più significativo che le ritroviamo entrambe in Cathy Ames, famigerato anello di congiunzione tra i Trask, bella e spietata, mossa da una brama di rivalsa che calpesta ogni valore in nome di un’ideale di purezza tanto abbacinante da svuotarsi di umanità e avvitarsi in un’ossessione malsana. 

Aspirazioni, ambizioni, l’aderenza a un ruolo, il senso del dovere, la consapevolezza del peccato, il teatro delle apparenze, il successo come affermazione di sé, l’affermazione di sé come menzogna (è il caso di Cyrus Trask, padre di Adam e Charles), il bisogno di essere riconosciuti e amati, l’invidia: l’esistenza per Steinbeck è un conflitto tra forze potenti, con l’individuo chiamato a esercitare il più impegnativo dei doveri: la scelta. 

La parola chiave è timshel, in ebraico “tu puoi”, uno schiudersi di prospettive ma anche un giogo, il rischio del baratro come prezzo da pagare alla possibilità – al dovere – di essere. I personaggi più tragici si rivelano alla fine quelli che non hanno esercitato la benedizione/condanna di scegliere, quelli che restano nella palude (Trask deriva dallo scandinavo träsk, “palude”, appunto) delle posizioni non prese. 

In tutto ciò, spiccano per centralità e intensità due personaggi: uno è Samuel Hamilton, il vero nonno di Steinbeck opportunamente romanzato (ma neppure troppo, a quanto sembra), vera e propria nemesi di Cathy in virtù del suo agire entusiasta e disinteressato, per il suo porsi fuori dalla competizione sociale. In lui c’è più futuro che passato, più scoperta che tradizione, la sua ricchezza coincide in larga parte con l’assenza di posizioni da perdere, che è poi il motore stesso della sua inesauribile curiosità. In Samuel Hamilton “timshel” è una parola d’ordine quotidiana, ancorché inconsapevole. Un altro “estraneo” è Li, il domestico cinese dei Trask, in tutto e per tutto statunitense anche se utilizza il pingdin (ovvero quella specie di slang che corrisponde a come gli occidentali pensano che i cinesi debbano parlare) per nascondersi, per delimitarsi in un ruolo e quindi proteggersi, salvo rivelare totale padronanza dell’inglese quando scopre nell’interlocutore uno spirito affine. Proprio questa diversa ma simile natura di outsider consentirà a lui – come a Samuel – di vedere dove gli altri scorgono confusione e oscurità.

C’è molto altro, ovviamente. La vallata di Salinas non sta solo sullo sfondo, è uno scenario aspro (per gli Hamilton) e florido (per i Trusk), indifferente alle vicende umane seppure destinato a cullarne le evoluzioni. È il ventre in cui crescono germogli e germi di un futuro precipitoso, di cui la Grande Guerra è un esito cupo, un destino collettivo ma – è questo il punto – non inevitabile. E c’è (quindi) il respiro della Storia, come un rimbombo, una corrente invisibile che attraversa le vite e rende necessario reagire, adeguarsi, aggiustare la traiettoria. Spazio e tempo dunque, i cui piani si intersecano senza sosta, producendo così le trame che avviluppano ognuno, collegando senza sosta destini, generando catene di responsabilità, rivoli di conseguenze e sedimenti di colpa. In questa realtà carsica, l’individuo non può ripararsi dietro l’alibi del destino, né rassegnarsi alla sua inappellabilità: è chiamato a scegliere. È tenuto a diventare.

7 commenti

  1. Steinbeck, uno dei miei autori americani, preferiti. Avevo letto tutti, circa venti o più anni fa. Forse è il caso di rileggerli. Bellissima la lettura cinematografica con immenso James Dean, di La valle dell’Eden.
    Grazie!!!!

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