Quando uscì Ragazzi di vita, nel 1955, Pasolini aveva 33 anni e abitava a Roma da quattro. Una Roma di cui seppe comprendere il cuore grazie a Sergio Citti, di professione imbianchino, che rappresentò per lui un “dizionario vivente”, una guida, un interprete. A metà del secolo Pasolini era soprattutto un poeta, alcune sue raccolte erano state pubblicate con regolarità a partire dai primi anni Quaranta. Il cinema sarebbe arrivato qualche anno più tardi con Accattone (1961), suo primo film da regista, anche se già nel ’57 contribuirà alla sceneggiatura del felliniano Le notti di Cabiria. Ma alla metà dei Cinquanta, con l’Italia impegnata a premere il gas in quel processo che verrà consegnato ai libri di storia come “boom” o “miracolo economico”, Pier Paolo Pasolini decise di indagare la realtà utilizzando come speculo e mezzo di contrasto il romanzo.

In vita ne pubblicherà quattro, che diverranno cinque quando l’incompiuto Petrolio uscirà nel 1992. Dal momento che il primo tentativo, Il sogno di una cosa, rimase in un cassetto per oltre dieci anni (vide la luce nel 1962), Ragazzi di vita coincise con l’effettivo esordio di Pasolini nel mondo della narrativa. Non fu una passeggiata: il linguaggio e i temi trattati (violenza domestica, prostituzione femminile e maschile…) gli guadagnarono censure anche feroci, da cui il relativo processo che scagionerà il romanzo dalle accuse di oscenità. Pasolini inizierà subito a comporre un seguito ideale, Una vita violenta, pubblicato nel 1959, mentre Teorema arriverà più tardi, sulla scorta dell’omonimo film del ’68.

Proprio la dimensione cinematografica (indubitabilmente grande) di Pasolini mi ha portato a trascurarne quella di romanziere, con cui mi cimento soltanto oggi (ahimé). Una scelta ancor più imperdonabile se tengo conto di quanto fossi consapevole che il regista di Mamma Roma, Uccellacci e uccellini e Il Decameron (tra gli altri) era in possesso di una penna formidabile: raccolte di articoli, interventi e saggi come Le belle bandiere, Lettere luterane e Scritti corsari hanno rappresentato una delle mie letture giovanili più nutritive (promemoria: dovrei proprio rileggerle). Malgrado questo, ho sempre percepito il Pasolini romanziere come minore, marginale rispetto al cineasta. Dopo avere letto Ragazzi di vita, inizio finalmente a dubitarlo.
Seppure sia inevitabile il confronto con gli scenari, il contesto, la poetica che ritroveremo in Accattone (interpretato da Franco Citti, fratello di Sergio), mi pare che il romanzo riesca a mantenere una specificità propria e per nulla subalterna. Anzi: nel film lo sguardo di Pasolini è vincolato alla superficie delle cose, al profilmico, che al di là delle intenzioni del regista il linguaggio cinematografico esige “educato”, conforme al codice del grande schermo, da cui una rappresentazione sensibilmente edulcorata di personaggi e luoghi, pur in quel bianco e nero abbacinante e a tratti impietoso (un passo appena – ma decisivo – oltre il neorealismo e verso un’astrazione di corpi, dialoghi e azioni, con intenti chiaramente simbolici). In Ragazzi di vita invece la realtà sembra emanare dalle proprie stesse viscere infette.
Il ruolo dell’io narrante è fondamentale: non solo è terzo e onnisciente, ma riversa sull’asciuttezza del racconto un’empatia costante, testimoniata dall’appropriazione di forme espressive dialettali, incorporate nell’italiano come particelle di prossimità all’oggetto stesso della narrazione. Sono segnali di comprensione, di empatia e persino di pietà che determinano altrettante crepe formali attraverso cui si stabilisce la connessione coi personaggi e ai loro dialoghi in romanesco. È come se Pasolini – nato a Bologna da padre emiliano e madre friulana, ma ormai romano di adozione e d’elezione – si svelasse pur restando implicito, estraneo, fuori dall’inquadratura. La penna è in effetti già una macchina da presa che galleggia tra i corpi, pennella similitudini e giudizi però fermandosi sempre prima di costituirsi come istanza morale, è un osservatore esterno, seppure ammaliato e commosso. La sua non è imparzialità, somiglia più al fatalismo di chi non può fare altro che raccontare.

Ed è un raccontare vertiginoso, commovente, batterico, terribile. Strutturato su capitoli che hanno il respiro di racconti (e in effetti Il Ferrobedò, quello che apre il libro, in origine era un racconto a sé), si fa romanzo seguendo le vicende di un gruppo di ragazzi(ni) dall’immediato dopoguerra ai primissimi anni Cinquanta, e ne esce indubbiamente un romanzo corale, anche se la parabola del Riccetto è quella prevalente, il suo fervore animale di fanciullo che si fa uomo andando a sbattere duramente contro le regole, incapaci di rappresentare altro che una barriera, un dissuasore arido che produce vite marginali a cui è negato il vocaboalrio della speranza.
Tra le macerie del dopoguerra e dei cantieri non c’è soluzione di continuità, i sobborghi romani sono fatiscenti, devastati, contesi alla natura selvaggia come l’umanità che li abita. Questa corrispondenza tra individui – bambini dalla giocosità infervorata, ragazzi scossi da ambizioni cieche, uomini schiantati da lavoro e alcolismo, donne preda di disperazione nera – e luoghi è al cuore della tensione narrativa. Una stessa quotidianità ulcerata unisce i volti e i palazzi calcinati sotto una luce ostile, una stessa infezione divora gli abiti laceri e le strade incrostate d’asfalto.
Da una disavventura scellerata all’altra, i protagonisti masticano la carogna dell’innocenza, formicolano attorno alle scorie degli abbozzi urbanistici, economici e sociali che producono opportunità estemporanee, parassitarie, su cui Riccetto, Lenzetta, Alduccio, iI Bagalone, il Caciotta si gettano per tirare su la “piotta” e i “sacchi”, da sputtanarsi magari in una notte. La loro delinquenza si muove sulla linea d’ombra tra espediente e criminalità, nell’abitacolo stretto dei loro destini a perdere, in uno scenario di crollo imminente, di precarietà che scortica la vita fino alle ossa, di famiglie ammassate in due stanze, di vite schiacciate senza riguardo mentre giorno dopo giorno si spezza la trama delle prospettive e della solidarietà.

La periferia raccontata da Pasolini è un agglomerato di individui che non sa e non può essere comunità. La moneta corrente è un caustico antagonismo privo di empatia, che Riccetto – nell’ultimo capitolo, terribile e meraviglioso – sperimenta sulla propria pelle, attraverso il suo sguardo impotente su una tragedia a cui può opporre solo una scompaginata, sempre più fragile indifferenza. Mi pare che il punto sia questo: i protagonisti sono allo stesso tempo carnefici e vittime, perché questo è ciò viene consentito loro di essere. Sono vittime in quanto carnefici di se stessi, le vittime più opportune e funzionali.
Malgrado questo auto-abominio, il progresso avanza, la civiltà stende strati di normalità cementizia senza curarsi di ciò che ricopre, la cui intima malattia rimane intatta, irrisolta. È questo ciò che si para davanti agli occhi di Riccetto una volta uscito “da bottega” (il carcere): una civilizzazione senza civiltà, fatta di recinzioni e barriere per disciplinare spazi e impedire accessi, per chiudere i varchi all’imprevisto, all’espediente.
Un po’ come lo Scorsese di Gangs Of New York che individua simbolicamente il male profondo della societa USA nei conflitti tribali che a metà dell’Ottocento infiammarono il quartiere newyorkese di Five Points, Pasolini invita il lettore a posare lo sguardo dove prese vita la Repubblica e quindi il Paese che siamo diventati, ovvero sul secondo dopoguerra italiano, sull’infezione mai curata sotto la pelle levigata del consumismo, sulla dinamica di conflitti senza prospettiva, sull’ostilità preconcetta contro la cultura in quanto chiave per l’autorealizzazione. Quasi settanta anni più tardi, Ragazzi di vita rappresenta un punto di vista drammaticamente attuale, cuore pulsante di un romanzo aspro e struggente, ancora in grado di raccontarci chi siamo.
Se lo fa, tuttavia, è anche per la qualità di una scrittura capace di formidabili aperture liriche e pittoriche, che saldano la crudezza dei fatti allo splendore di spazi, territori e luoghi la cui bellezza tormentata sembra reclamare appartenenza in un deserto di umanità:
Da una parte il cielo era tutto schiarito, e vi brillavano certe stellucce umide, sperdute nella sua grandezza, come in una sconfinata parete di metallo, da dove, sulla terra, venisse a cadere qualche misero soffio di vento. Dall’altra parte, come ci si voltava, verso Roma, c’era ancora brutto tempo, con dei nuvoli grevi di pioggia e fulmini, che però s’andavano sbrillentando all’orizzonte cosparso di lumi. Da un’altra parte ancora il cielo si stendeva, proprio lì sopra Tiburtino, come sopra l’imbuto d’un cortile, e la luna s’appoggiava, spaurita, sugli orli lucenti di qualche macchia id vapore vagante.
Leggendo passaggi del genere, mi è venuta in mente spesso una canzone di Paolo Zanardi, altro romano acquisito e quindi dotato di uno sguardo assieme intimo e alieno sull’Urbe. È una canzone dedicata a Piero Ciampi, ma non importa, o forse sì. Parla di splendore, della sua abitudine a nascondersi ovunque, e in tutto farsi trovare. Lo splendore di ciò che è, fuori dalle convenienze, dalle pianificazioni, dalle formattazioni. Lo splendore di ciò che è.
Di Pasolini ho letto Una vita violenta, ed è vero dentro ci trovi l’Italia che fu, ogni riga ne è impregnata. E poi tirando le somme ci trovi pure l’Italia che è (e che forse non è mai cambiata)…
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