Ho appena letto un vecchio romanzo, di cui alcuni passaggi mi hanno letteralmente ipnotizzato. Tipo questo:
“Mi piaceva scioglierle i capelli e lei sedeva sul letto e stava immobile tranne quando d’improvviso si gettava giù a baciarmi mentre glieli scioglievo, e io le toglievo le forcine e le posavo sul lenzuolo e erano sciolti e la guardavo mentre stava immobile e poi le toglievo le ultime due forcine e cadevano tutti e lei abbassava la testa e ne eravamo immersi tutti e due ed era la sensazione di esser dentro a una tenda o dietro a una cascata.”
Ernest Hemingway è morto nel 1961, a sessantuno anni. Ha scritto molti romanzi, alcuni molto celebri, e numerosi racconti. Ha vinto un Pulitzer e un Nobel, tra le altre cose. Infine, si è tolto la vita. Io, alla scoccare dei cinquantuno anni, non avevo ancora letto un suo libro. Neppure uno.

Il motivo? Forse perché come lettore lascio molto a desiderare. Anzi, toglierei il forse. È sicuramente perché sono un pessimo lettore. E non mi consola troppo la celebre frase di Troisi rivolta al mare magnum dei libri: “voi siete tanti, io sono uno“. Insomma, di Hemingway non avevo ancora letto niente e come lettore faccio schifo. Tra i miei difetti, credo di poterlo dire con certezza, c’è la tendenza a lasciarmi influenzare troppo dalle opinioni altrui, dalle critiche. Ad esempio, da quella che mi capitò di leggere attorno ai venti anni, non ricordo dove, a proposito di Hemingway. Il giudizio nei suoi confronti non era, come dire, lusinghiero, dal momento che veniva definito più o meno: conservatore, maschilista, dedito perlopiù al culto della vigoria fisica applicato a una mentalità di stampo colonialista, e via discorrendo. Non proprio quello che andavo cercando nel mio tardivo e neanche troppo sottilmente disperato tentativo di spuntare caselle sulla mappa sterminata dello scibile letterario.
Come risultato ne ricavai un ostracismo a bassa intensità che è durato fino a oggi. Neppure Paolo Conte, con la stregoneria languida della sua Hemingway, seppe dissolverlo.
Ma dove non riescono gli ex-avvocati astigiani con la magia sospesa tra il piano, la voce e il kazoo, a volte può una libreria dell’usato. Nella quale, tra molti altri volumi venduti a prezzo scandalosamente basso, ho trovato questo Addio alle armi, un vecchio paperback Oscar Mondadori, in ottime condizioni (per la cronaca, il prezzo originale è indicato in lire 13.000). L’immagine di copertina ritrae lo scrittore da giovane, allettato: la foto fu scattata in un ospedale della Croce Rossa a Milano, dove venne ricoverato a causa di ferite di guerra nel 1918, un episodio che sarebbe finito – opportunamente rielaborato – in questo romanzo, pubblicato undici anni più tardi.
Neppure ventenne, Hemingway partecipò al primo conflitto mondiale sul fronte greco, come autista di autoambulanze. Di quell’esperienza è intriso Addio alle armi, che tuttavia pone il fulcro su un altro fronte, quello dell’Isonzo, tra Italia e Austria (oggi Slovenia), teatro di uno stallo che si spezzò il 24 ottobre del 1917, determinando la più grande sconfitta mai subita dall’esercito italiano, la tristemente celebre disfatta di Caporetto.

La ritirata che ne seguì fu catastrofica, un autentico collasso di regole, valori e punti di riferimento, un brulicare caotico di vite spinte dall’accanita volontà di sopravvivere che dette luogo a una diserzione di massa, a cui Hemingway non partecipò, ma che seppe ricostruire anche basandosi sulle sue esperienze – diverse ma simili – in terra ellenica. Attorno a quell’evento – ovvero prima, durante e dopo – si accende la relazione tra il tenente medico statunitense Frederic e l’infermiera irlandese Catherine, un amore che sembra amplificato anzi trasfigurato dalla crudezza spietata della guerra.
La prosa è laconica ma incalzante, ogni frase sembra implodere in se stessa eppure è come spinta da un abbrivio denso, procede una vampa percettiva alla volta (di materia, volti, parole…) obbedendo a una volontà implicita e in qualche strano modo necessaria. La narrazione sembra perciò scivolare su un falsopiano, spinta dal contrasto tra l’asciuttezza formale e le tensioni che covano sotto i gesti levigati. Il fall out emotivo della guerra, dimensione invisibile e incombente come una sovrastruttura burocratica, genera una trasparenza vischiosa in cui i personaggi sembrano galleggiare, vittime di un’attesa indefinibile e snervante.
Così gli individui sembrano bozzoli sul punto di accartocciarsi, caratteri in bilico sul proprio rimosso. La cordialità nasconde malanimo, l’arrendevolezza cova un intrico astioso, la speranza è una pura formalità. In questo quadro, l’amore tra Frederic e Catherine assume connotati onirici, oppone alla realtà una contro-alienazione disperata, il tentativo di identificarsi e quindi di annullarsi nell’oggetto dell’amore, nell’amore stesso: “Ti amo così tanto che vorrei essere te“. È un amore malato di bisogno d’amore come antidoto all’orrore. È un amore che fugge da ciò che sa di non poter evitare, ma che in questa illusione trova comunque abbastanza senso da brillare.

La fuga diventa quindi il momento vitale: durante la terribile, rocambolesca ritirata dopo la disfatta di Caporetto, così come nell’attraversamento notturno del Lago Maggiore, i personaggi – a partire da Frederic – acquistano una febbrile, scoscesa, vibrante umanità, sembrano filamenti che s’illuminano per la vicinanza a una fonte di energia selvaggia e inafferrabile. Ma è una condizione transitoria, appunto, lo spostarsi da una situazione di pericolo ad un’altra. Ed è anche il senso, se un senso deve essere trovato, del romanzo: la mancanza di riparo, l’impossibilità di scampare alla crudele equazione della vita, di cui la guerra è una mostruosa allegoria.
Molto belli i dialoghi, capaci di imbastire siparietti ipnotici e sconcertanti, tra cui quello che assieme ai passaggi più feroci (indimenticabile la corsa in ambulanza dopo il primo ferimento, con un compagno di sventura di Frederic che si dissangua goccia dopo goccia sopra di lui) è forse il passaggio più bello del romanzo, ovvero la chiacchierata con l’anziano (94 anni) conte Greffi alla vigilia della fuga in Svizzera:
“Lei è saggio.”
“No. È il grande inganno: la saggezza dei vecchi. Non diventano saggi, diventano attenti.”
(…)
“Che cosa pensa della guerra?”, chiesi.
“Penso che è stupida.”
“Chi vincerà?”
“L’Italia.”
“Perché?”
“È la nazione più giovane.”
“Le nazioni più giovani vincono sempre le guerre?”
“Per un certo periodo sono adatte per vincerle.”
“E poi cosa sucede?”
“Diventano nazioni più vecchie.”
“Ha detto che non è saggio.”
“Caro figliolo, questa non è saggezza. È cinismo.”
Certo, il lettore contemporaneo (credo di rientrare nella categoria, ma non ne sono certo) potrebbe trovare ridondanti o persino stucchevoli certi scambi tra Frederic e Catherine, quasi che la loro grammatica affettiva obbedisca a criteri così sorpassati da suonare artefatti. Tuttavia, proprio in quel senso di strisciante inautenticità, proprio la pellicola che sembra avvolgere i due amanti, quasi che fossero gli attori di una recita sottaciuta, potrebbe costituire il cuore della vicenda, la chiave narrativa: ovvero il bisogno reciproco, inderogabile, assoluto di consegnarsi a una storia in grado di strapparli alla macina spietata della Storia.
Nel 1999, l’anno a cui risale il volume in mio possesso, non erano stati ancora pubblicati i 47 finali alternativi a cui Hemingway aveva pensato per questo suo secondo romanzo (hanno visto la luce ufficialmente nel 2012). La scelta definitiva è caduta su uno dei più laconici che ricordi di avere mai letto, ed è giusto così. A pensarci bene, per molti aspetti Addio alle armi contiene molti elementi delle road story, nelle quali conta più il percorso, la tensione in itinere, che non l’approdo.
Avrei altre cose inopportune da aggiungere, ad esempio qualche considerazione sulla vicenda dell’avventurosa traduzione clandestina di Fernanda Pivano, che le causò un arresto da parte delle S.S. tedesche, come lei stessa racconta nella commovente introduzione (l’originale le era stato passato da Cesare Pavese, suo ex insegnante al liceo). Oppure, e infine, che letture come questa, così intense da stridere con la casualità che le ha fatte accadere, mi regalano ogni volta la piacevole sensazione di quanta ricchezza sia custodita in ciò che ho colpevolmente trascurato di conoscere, assieme alla sottile e sempre più definitiva consapevolezza di avere sbagliato vita.
Di Hemingway ho letto solo Il Vecchio e il Mare, che mi fu propinato alle scuole medie ma che lessi solo una decina d’anni dopo per conto mio. Ma mi sono ripromesso di leggere uno (o perché no, entrambi) tra Addio alle Armi e Per chi suona la campana.
Di Caporetto invece ti consiglio (se non lo hai già letto), il volumetto che scrisse nel 1921 Curzio Malaparte, W Caporetto (La rivolta dei santi maledetti).
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Me lo segno, grazie!
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dello zio Ernesto, il mio romanzo preferito è Fiesta. mi piacciono i romanzi dove il protagonista cerca il senso delle cose e (forse) non lo trova e dove viene concesso pari spazio a ciò che è brutto/corrotto e a ciò che è bello/buono. eppoi Fiesta è il meno “scritto a tavolino” tra i libri del nostro ed è anche quello che piaceva di meno a sua madre, che lo battezzò “una tra le peggiori porcate lettararie dell’anno” o qualcosa di simile. eh, si sa che il valore artistico di un’opera è inversamente proporzionale all’apprezzamento che ne dà la madre dell’autore…
: )
comunque zio Ernesto non entra nella (mia) top tuenti dei più grandi romanzieri di sempre (amen).
e a proposito di top tuenti degli album 2020, ho saltabeccato tra i post precedenti senza trovarla… niente top tuenti quest’anno? mi piaceva l’idea di scorrerla per vedere se m’ero perso qualcosa (ho avuto parecchi casini e pochissimo tempo libero). la mia è qui https://neobar.org/2021/01/16/musicazzotto-nellorecchio-best-albums-of-2020 (così giustamente contraccambio), e la tua?
: )
malos
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Ehilà, ciao. Classifica interessante, la studierò.
Ecco la mia: https://sentireascoltare.com/news/migliori-album-2020-classifica-e-considerazioni-di-stefano-solventi/
Nella top 20 ne abbiamo 4 in comune, niente male, dài 🙂
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ho seguito il link. Humpty Dumpty, Paolo Zanardi e Hugo Race And The True Spirit mi erano sfuggiti (grazie della dritta). sui Flaming Lips già ti scrissi che stravedevo per loro fino a Zaireeka (e infatti restano nella top 10 dei miei gruppi preferiti d’ogni epoca), ma negli ultimi vent’anni li sento sempre più distanti. Dylan è sempre stato un genio furbo, capace di “cavalcare” e vendere il suo personaggio fin troppo bene (in buon accordo col giudizio che ne dava Syd, non riesco a perdonarglielo). per il resto sì, siamo in discreta sintonia.
: )
buone cose, fratello.
un abbraccio.
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[…] rimpianto per avere snobbato finora il vecchio Hemingway, già consistente dopo la lettura di Addio alle armi, aumenta con Fiesta. Credo che sia uno dei romanzi col rapporto più alto tra leggerezza e […]
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[…] statunitense, testimoniati ad esempio dalla stima reciproca tra lo scrittore siciliano ed Ernest Hemingway (di cui nel 1940 tradusse Per chi suona la […]
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[…] il tema della “lost generation” in Hemingway – nello specifico in Addio alle armi, uscito nello stesso 1929 – emerge come un accordo dominante, come una cornice che giustifica […]
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[…] Lo hanno fatto in particolare i suoi narratori, da Poe a Mellville passando da Twain, Steinbeck, Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, O’Connor e via discorrendo, attraversando la beat generation per approdare […]
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