Alle nostre latitudini, guerra è un concetto alieno. Da decenni siamo abituati a collocare la guerra lontano dal nostro habitat, al di là del perimetro definito dalle nostre possibilità di individui, fuori dai radar dei sistemi sociali, economici e culturali di cui siamo membri. La guerra per noi è il passato, è l’altrove, è l’estraneo. Ne abbiamo fatto una parola terribile ma pura. Uno stigma.

Tutto questo è frutto di una distorsione culturale. La guerra in realtà non ha mai lasciato il proscenio. C’è sempre stata, in qualche forma e in qualche luogo. Molte guerre sono scoppiate dalla fine del secondo conflitto mondiale, vampe rapide e sanguinose oppure carneficine sorde e inestinguibili, con tutte le variazioni del caso (immancabilmente atroci). Come abitanti di un mondo sempre più globale, in ognuna eravamo in qualche modo coinvolti. Ma nessuna guerra era qui. E la loro lontananza – geografica o culturale, spesso entrambe le cose – consolidava l’idea che la casa degli occidentali, la nostra casa, non fosse (più) lo scenario in cui un evento bellico potesse avere luogo.
Col tempo e le generazioni, una missione di peace keeping dopo l’altra, questo processo di delocalizzazione dell’evento bellico è diventato prassi. Si è irrobustita così la convinzione che i nostri parametri vitali (sociali, culturali, politici, economici, geografici…) ci avessero regalato una specie di immunità al virus della guerra, che invece si accaniva su quanti – ahiloro – non disponevano di tale “firewall” (sociale, culturale, politico, economico, geografico…).
Poi, febbraio 2022, ecco la guerra. Vicina. Crudele. Tragica. Dai meccanismi ben addentellati agli ingranaggi che muovono il nostro quotidiano. Pochissimi i gradi di separazione, inevitabile la sensazione di prossimità, immediate le ricadute. L’intrusione della guerra nel nostro quotidiano di occidentali riparati dall’habitus/firewall di cui sopra è stata mediatica, politica ed economica. Di colpo la quarta (o è la quinta?) ondata della pandemia, col suo corollario intossicato di polemiche, non ha più trovato spazio sul tavolo del dibattito collettivo: la guerra è il nuovo mostro perturbante, la presenza intrusa, al tempo stesso eerie (qualcosa dove non dovrebbe esserci nulla) e weird (un varco verso dimensioni altre). Ne siamo angosciati e ipnotizzati, non necessariamente in quest’ordine.
Prevedibilmente (e comprensibilmente) il cerchio delle conoscenze e le bolle social sono diventate crogioli di analisi geopolitica, a vari gradi di lucidità e spessore. È importante, la geopolitica. Lo è anche se esercitata come sfogo emotivo o sfoggio social: c’è bisogno di mappe per affrontare il disorientamento, per allungare lo sguardo nella nebbia, così da prendere le misure ai margini di manovra individuali e collettivi, per tenersi aggrappati alle sponde della consapevolezza o a qualcosa che le somigli. È del tutto comprensibile l’urgenza di decifrare il codice del mostro, di risalire le radici delle responsabilità. Personalmente tuttavia penso che sia doveroso e urgente riservare la massima priorità a tre parole: cessate il fuoco.
Per quanto mi riguarda, la fine delle ostilità deve prescindere da qualsiasi analisi, interpretazione o attribuzione di responsabilità, il cui tempo inizierà un momento dopo l’armistizio. Finché cadono bombe e fischiano proiettili, la geopolitica mi sembra un esercizio di stile, carburante per dialettiche giornalistiche e bolle social a somma zero.
È per questo che negli ultimi giorni, inutilità per inutilità, anziché leggere editoriali e post su facebook con relative schermaglie dialettiche (le pontificazioni televisive neanche le considero), ho preferito dedicare tempo ed energie a un paio libri.

Il primo è una rilettura: A ferro e fuoco di Enzo Traverso. All’epoca in cui fu pubblicato, nel 2007, era stata metabolizzata con fatica la fase del post-undici settembre. Ricordate? La “fine della Storia” si rivelava piuttosto turbolenta e ben poco, come dire, definitiva. Il cosiddetto “secolo breve” aveva allungato le sue propaggini oltre la soglia del cambio di millennio, regalandoci aggressioni preventive e atti di terrorismo che obbligavano a riconsiderare il concetto stesso di guerra per come si era definito appunto nel Novecento. Guerra, appunto: all’alba del ventunesimo secolo era un termine sempre più fluido, volatile, sul punto di mutare forma e senso.
Il volume di Traverso, storico piemontese classe ‘57, aveva il merito di chiarire il punto di partenza per le nuove, necessarie riflessioni che il concetto reclamava. Lo faceva argomentando con lucidità e passione, attraverso pagine che colpiscono forte oggi come quindici anni fa, concentrandosi sul processo che durante il trentennio (abbondante) 1914-1945 trasformò la guerra in guerra totale e, quindi, civile.
A differenza dei modelli in uso fino all’Ottocento, a scontrarsi non erano più eserciti costituiti da una élite nobile/dirigenziale e da una selezione di cittadini in linea di massima volontari, ma le nazioni stesse in quanto industrie, risorse energetiche, strutture urbanistiche, organizzazioni politiche e culturali, nonché – ovviamente – i popoli stessi, sia come massa (produttiva) che come individui, coi loro bagagli emotivi, le intelligenze, i corpi.
Guerra totale e quindi guerra civile perché in questa nuova dimensione bellica i campi di battaglia e le linee del fronte si sovrappongono alla civiltà stessa. Che diviene quindi una civiltà posseduta dallo spettro del popolo nemico: il nemico non è più l’esercito ostile, ma un intero popolo altro, artefice di disvalori minacciosi e in ragione di ciò meritevole di annientamento. La guerra totale occupa la realtà in ogni suo aspetto, si impadronisce del quotidiano, ne ricodifica i riti, i ritmi e il vocabolario. Si “civilizza”.
Non stupisce affatto quindi che tanto gli obiettivi degli attacchi che le vittime delle azioni belliche divengano – già nel primo conflitto mondiale e ancora più nel secondo – sempre più civili. La guerra macchinizzata tende a prescindere i fronti così come la sua potenza eccede i corpi: mentre dilania questi ultimi, proprio come li sbrana e li annienta, proprio come rende invisibile e devastante la minaccia (il gas, la mitraglia, i bombardamenti, i droni…), vaporizza le frontiere, si abbatte come un contagio nel “corpo” del Paese nemico, ne sconvolge gli equilibri produttivi e culturali, mette nel mirino le città e le vie di comunicazione, spingendosi a danneggiare volutamente i tessuti urbani e i siti culturali (il cosiddetto “culture bombing”) per compromettere la vita stessa delle popolazioni ostili, per colpirle al cuore e minarne l’equilibrio psichico.
Oggi come allora, i bombardamenti sulle città, sulle fabbriche, sulle abitazioni, sugli ospedali, sono tutt’altro che “danni collaterali”, bensì colpi andati a segno su obiettivi coerenti allo spirito di questo tipo di conflitto.

Qui entra in gioco l’altro libro, un classico che da tempo volevo leggere (esatto: di quelli che non ti spieghi perché hai rimandato tanto la lettura): Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque. Il protagonista Paul Bӓumer, fante dell’esercito tedesco, racconta in prima persona – con piglio quasi diaristico – un periodo di alcuni mesi sul fronte francese tra il 1917 e il 1918. Col succedersi di assalti infernali e precari intervalli di quiete, mentre i corpi dei commilitoni sconosciuti e amici cadono feriti o dilaniati, tra l’incombere subdolo dei gas letali, il rimbombo incessante degli esplosivi e la minaccia invisibile dei cecchini, Paul sperimenta la mutazione irreversibile del proprio paesaggio psichico, emotivo e culturale.
Il nemico è un’entità astratta, immanente, che prosciuga di senso l’esistenza riducendola al grado zero, a un rituale quotidiano di bisogni primari da soddisfare nel brevissimo periodo. La morte è la compagna di ogni giorno, e lo rimane anche lontano dal fronte, come si rende conto un disorientato Paul durante una licenza. La guerra totale ricodifica la civiltà introducendo se stessa come elemento chiave dell’equilibrio sociale, politico, culturale: una “presenza” che inaridisce tutto il resto. Sono duecento pagine, asciutte e intensissime, che a quasi un secolo dalla pubblicazione sanno scuotere nel profondo con forza intatta.
Se il tema della “lost generation” in Hemingway – nello specifico in Addio alle armi, uscito nello stesso 1929 – emerge come un accordo dominante, come una cornice che giustifica il languore esistenziale dei protagonisti, in Remarque viene affrontato con una cruda, lucida tenacia, viene esposto come una ferita, spinto fino al punto critico. La generazione è perduta perché violata, svuotata, costretta a confrontarsi con un mondo carnefice.
L’esistenza stessa della guerra totale – che nelle atomiche di Hiroshima e Nagasaki trovò un paradigma abbacinante e catastrofico – come possibilità, cambiò il modo di pensare se stessi nel mondo. Eppure, dopo decenni di guerra fredda, in qualche modo venne messa a punto una struttura culturale che escludeva la possibilità di un conflitto almeno all’interno del nostro spazio vitale. Gli atti terroristici degli ultimi vent’anni (dalle Twin Towers al Bataclan passando da Utoya, Londra, Boston e Madrid) sembravano paradossalmente confermare questa forma mentis, perché ribadivano che l’unico modo per introdurre il conflitto in occidente era frantumarlo, farne schegge letali in grado di attraversare le maglie dei sistemi di controllo.
Terrorismo, appunto, non guerra. Un elemento intruso, alieno, non un parto della nostra stessa civiltà bensì una sua escrescenza anomala, un grumo di cellule impazzite. Allo stesso tempo, anche il nemico ne usciva “virtualizzato”, inconcepibile come popolo, parcellizzato fino all’invisibilità. Come un virus da curare, da prevenire. La guerra del ventunesimo secolo sembrava, per l’occidente, una questione sanitaria.
Il conflitto tra Russia e Ucraina fa a pezzi questo schema perché ripropone la guerra novecentesca come eventualità concreta (prossima e persino futura). Quello che sembrava un dispositivo politico e culturale ben sedimentato, uno scudo in grado di impedire che una follia disumana potesse di nuovo manifestarsi all’interno del nostro perimetro vitale, si sta rivelando un puro e semplice meccanismo di rimozione, oltretutto ormai logoro. Quello che stiamo vedendo in questi giorni sui notiziari, nelle testimonianze condivise sui social, ha tutto l’aspetto di una versione brutalmente aggiornata della guerra civile novecentesca.
Spero che si arrivi presto a una soluzione pacifica. In ogni caso, temo, ne uscirà un futuro più fragile e pericoloso.
È nei libri (che sono cultura e memoria) che dobbiamo trovare l’antidoto alla guerra.
Anch’io ho pensato molto a Remarque in questo periodo, quel libro ha ancora una forza espressiva incredibile e chiarisce, meglio di qualsiasi altro scritto storico, cosa sia stata quella guerra.
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