Una ventina di anni fa dedicai una puntata della mia non abbastanza dimenticata rubrica Lacune sul Mucchio Selvaggio a Pet Sounds dei Beach Boys. Conoscevo il disco da un pezzo, ovviamente, tuttavia solo da poco ero riuscito a farmene pervadere, a incantarmi di quelle melodie e quegli arrangiamenti che come pochi altri giustificano l’utilizzo del termine “sublime”. Riporto qui quella pagina ripescata da un hard disk decrepito, sperando che possiate perdonare le affermazioni azzardate e lo stile pomposo.
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The Beach Boys – Pet Sounds (1966)

Prologo (pittorico): Saturno che divora i suoi figli, nella visione di Francisco Goya: occhi strabuzzati e biancastri; pasto feroce, disumano, disperato; corpo che è già memoria di terra, schiavo del ritorno nel nulla. Perché scrivo queste cose?
Correva l’anno 1962, a Los Angeles: attorno ai tre fratelli Wilson (Brian, Dennis e Carl) e al cugino Mike Love si costituiva il nucleo di un sogno che non conoscerà né tempo né frontiere. I primi album definiranno un tipo di pop “leggero” ancora oggi esemplare, ma il bello – decisamente – doveva ancora venire.
Le canzoni dei Beach Boys sono una croce sulla mappa dei sogni, un suono riconoscibile quanto quello di Beatles e Dylan, ma forse di più. E – come per i Fab Four – gran parte della fama si deve ai primi briosi vagiti, a quell’autentica colonna sonora dello scazzo estivo che annovera piccoli capolavori di un’innocenza terrificante (Surfin’ USA, Fun Fun Fun, Little Deuce Coupé, California Girl…), tanto spensierati quanto deliziosamente anarcoidi, aperti ai contrasti e alle frequenti “perturbazioni”, vedi i coretti ebbri, i folli esotismi, gli effetti burleschi, la bassa fedeltà… Tutto questo però al genialoide Brian Wilson non poteva bastare, e infatti, folgorato sulla via del beatlesiano Rubber Soul, si mise a progettare Pet Sounds come un’unica collana di canzoni legate al tema antico del rapporto a due: visionarietà languida, il dileguare dei colori, un’ombra di malinconia su quell’estate che sembrava non dover finire mai.
Ma si tratta pur sempre dei Beach Boys, e l’inizio è sbalorditivo: prima il cinguettio festoso dei mandolini nel parodistico technicolor di Wouldn’t It Be Nice e poi l’incedere piano di You Still Believe In Me fanno intravedere un giardino tenero e misterioso, abitato da sfarfallii di clavicembalo, clarinetti, campanelli di biciclette (!) e – naturalmente – dalla voce di Brian, una voce disarmante, estatica, rapita in un’euforia sospesa, con un occhio al cuore e l’altro allo spalancarsi di prospettive indicibili.
Si respira fin da subito un’aria densa e opalescente, una specie di ebbrezza incantata che prosegue con That’s Not Me, scheggia lo-fi ante litteram attraversata stavolta dal canto ineffabile e asprigno di Mike Love. La successiva Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder) dispiega un malumore dolciastro miracolosamente in bilico su un’autentica selva di strumenti (viola e violoncello, vibrafono, timpani ecc.), equilibrio che oscilla e si spezza nella sconcertante I’m Waiting For The Day, capace di lusinghe e scelleratezze, forte del drumming spettacolare e imprevedibile di Jim Gordon.
Let’s Go Away For Awhile è invece un soffice interludio strumentale dal retrogusto scivoloso e tagliente, vagamente jazzy, come dire TNT dei Tortoise prima che la fede nel pop-rock morisse di morte irreversibile e amara. Ombre e misteri, dunque, subito ravvivati dall’irresistibile Sloop John B., bizzarro folk caraibico centrifugato in un caleidoscopio di espedienti e trovate, a partire dall’accorato sovrapporsi di Brian e Mike alla voce: divertimento e intelligenza allo stato puro. Riguardo a God Only Knows, lasciamo la parola a sir Paul McCartney, uno che di queste cose – ne converrete – se ne intende: “la più bella canzone d’amore di ogni tempo”, cantata da un vellutato Carl Wilson, bravo a non calcare troppo la mano tra corni francesi, legni, archi, ottoni e il danelectro bass.
Siccome non c’è pietà per i cuori deboli, prima il tango buffonesco di I Know There’s An Answer irretisce tra stratificazioni di sax e una traccia balzana di piano, poi una serrata Here Today scaraventa l’ascoltatore in una prospettiva ubriacante e impetuosa, tra le magiche anarchie strumentali del bridge e l’ormai tipico coretto affilato: il riff d’organo fa intuire orizzonti che saranno ottimo riferimento per tutti i popadelici di lì a venire.

I Just Wasn’t Made For These Times, oltre a presentare un’altra stupefacente sovrapposizione di voci e fiati, oltre a strutturarsi come l’ennesimo crocevia di luoghi possibili, introduce per la prima volta nel rock (dicono i Testi Sacri) il famigerato theremin, mirabilia elettronica ospite di lì a poco negli spartiti di tante band bramose di cavalcare l’onda dei tempi. Trasuda languore fascinoso da spy story la strumentale Pet Sounds, con una chitarra capricciosa tra ammiccamenti lascivi di trombe e sax più il gioco disinvolto delle percussioni ricavato – pare – da bottigliette vuote di coca cola: ennesima pensata geniale di Mr. Brian Wilson, a quanto sembra.
Magiche visioni e ipotesi bislacche tramontano nella dolce inquietudine di Caroline No, all’inseguimento di parabole discendenti di clavicembalo, in volo su un tenue tappeto di flauti, fino all’incontro con la fantasmagorica immagine (o è un rumore?) di un treno colto in “field recording” ad un ipotetico passaggio a livello, nella tenera terra di nessuno che separa l’ignoto dal sogno.
Un gran disco insomma, meritatamente famoso, a cui – volendo essere pignoli – manca forse la zampata decisiva, una Good Vibration tanto per capirci, registrata praticamente nelle stesse session ma pubblicata purtroppo come singolo a sé stante. Comunque, chi ha amato i R.E.M. altezza Reveal e il pop leggero ma insidioso alla Magnetic Fields o The Clientele, in Pet Sounds può trovare un archetipo sorprendente e forse insuperato, nonché l’apice – ahinoi – dell’arte compositiva dei Beach Boys.
L’inarrestabile Brian Wilson, infatti, si mise subito all’opera per realizzare il “disco rock definitivo”, con ispirazione geniale e furiosa: i nastri incisi avevano per titolo Smile, e pare contenessero materiale fantastico, esplosivo, stupefacente. Ma il terremoto Sgt. Peppers arrivò troppo presto alle orecchie del Nostro, il quale, annichilito, vi riconobbe proprio quell’insuperabile assoluto che tanto cercava: così, tra frustrazione, rabbia e follia “chimica”, Smile finì nel fuoco e – di conseguenza – nel mito. Brian non si riprenderà mai completamente da una strisciante instabilità psichica, e i Boys, semi-orfani del suo genio, metteranno a segno bei lavori ma a gioco lungo saranno sempre più celebrazione di un grande passato.
Beffa del destino, i Beatles dichiaravano intanto che per l’inarrivabile Pepper si erano ispirati massicciamente, guarda un po’, proprio a Pet Sounds: Saturno divora i propri figli. Ecco perché.