But what’s the sense of changing horses in midstream?

Quando penso a Blood On The Tracks, è tutta una giostra di immagini, parole, episodi, connessioni.
Quando penso a Blood On The Tracks penso alla metà dei Settanta, a Dylan un passo indietro (o di lato) rispetto alla febbre del presente, al tour del rientro sulle scene con la Band dopo un disco (Planet Waves) che aveva segnato la rimpatriata (appunto) con la Band, alla crisi del matrimonio con Sara, alla smania per la pittura, ai Basement Tapes, a Desire e alla Rolling Thunder Revue di lì a un passo, al punk e alla new wave di lì a un passo, alle incisioni a New York nello studio di Phil Ramone, al passaggio alla Asylum e al rientro in CBS, alle re-incisioni a Minneapolis, al viaggio (leggendario) in Florida per fare ascoltare a Neil Young queste canzoni di cui non era convinto fino in fondo (sì, avete capito bene, Dylan non era convinto di queste canzoni*), al confronto costante, immancabile con quanto era accaduto dieci, nove anni prima, al confronto con quello che intanto stava accadendo alla musica che Dylan assieme a pochi altri aveva ridefinito anzi spalancato, al carosello delle copertine dei suoi dischi che compone un mosaico di astrazione progressiva, e via discorrendo.
Ma tutto questo, in un attimo, svanisce: proprio nell’attimo in cui la puntina tocca il solco del vinile. Il mio vinile di Blood On The Tracks è un’edizione da poco, ma che fa il suo dovere, e lo fa da anni. Calo il pickup e si sente un “knock” granulare, discreto, come il brontolio degli attimi che si ridispongono. C’è sempre stato, questo “knock”. Potevo sentirlo anche quando ascoltavo Blood On The Tracks in CD, e lo sento – ne sono certo – anche quando mi capita di riascoltarlo in streaming. È un segnale necessario, l’inizio del solco in cui scorreranno i fantasmi del sangue, il rimbombo dei tumulti, lo scricchiolio dei rimpianti, le vampe fataliste, il caldo, indecifrabile alito del Destino.
Calo il pickup, arriva il “knock”, ed eccomi solo con questo disco che è, indubbiamente, una folla, un raduno di spiriti smarriti, chiamati a sorvegliare i contorni della solitudine e dell’abbandono, di una resa che significa andare avanti. E c’è il suono, questo suono: la più potente discrezione elettrica che si possa immaginare, o la più crudele delicatezza acustica, spesso entrambe le cose. E c’è la voce, che spreme enigmi dall’invettiva, tenerezza dal veleno, fatalismo dal più inappellabile, inevitabile smarrimento. È una voce che ha riposto le armi perché conosce la forza delle ferite, le risposte delle ferite, la ferocia delle ferite.

Che si tratti di un album autobiografico, sulla crisi del proprio matrimonio, oppure – come Dylan dichiarò molti anni più tardi – ispirato a tutt’altro, tipo ai racconti di Checov, o persino slegato da qualsiasi connessione con una qualsiasi realtà o artificio, non importa: le canzoni di Blood On The Tracks sono, di per sé, reali, momenti in cui l’antico si ripiega sul presente, il simbolico infetta il concreto, il canto colma le distanze tra testo e interpretazione. Canzoni che prendono forma aggrovigliando tristezza e mistero, in ognuna un monito dolciastro, un richiamo ruvido, una scossa che nasconde la mano, un teatrino più vivo di molte vite che vi capiterà di incontrare oggi e nei giorni – negli anni – a venire.
Quando penso a Blood On The Tracks, smetto di credere alla possibilità che esistano vite che non si possano, in qualche modo, evocare.
* Ho sempre pensato, non so se più idealisticamente o ingenuamente, che per un aspirante cantautore di stampo folk-rock potrebbe essere una buona idea ripetere ogni mattina al risveglio la tracklist di Blood On The Tracks, come un mantra, o l’obiettivo massimo cui tendere. Probabilmente è una pratica in grado di apportare benefici a chiunque, musicisti o meno. La riporto di seguito, casomai qualcuno volesse cimentarsi:
Lato A
Tangled Up in Blue
Simple Twist of Fate
You’re a Big Girl Now
Idiot Wind
You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go
Lato B
Meet Me in the Morning
Lily, Rosemary and the Jack of Hearts
If You See Her, Say Hello
Shelter from the Storm
Buckets of Rain
È un disco che conosco poco, devo approfondire!
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Come è ovvio, te lo consiglio caldamente
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Solo Dylan poteva avere la faccia per dire che, no, non parlava del suo matrimonio. 😀 😀 😀
È il Dylan che ascolto più spesso e più volentieri.
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Solo Dylan, già 😀
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