Incantesimo e frattura: Mighty Joe Moon

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Doveva essere l’autunno del 1994. Per forza, doveva esserlo. Quel pomeriggio, come accadeva spesso, ero sintonizzato su Videomusic. O era sera? Difficile a dirsi, ma facciamo che: era pomeriggio. Non ricordo il nome della trasmissione, né chi la conduceva. In compenso, non ho trovato reperti video in rete. Insomma, un disastro, un tracollo informatico e neuronale. Mi spiace, il lettore dovrà accontentarsi di un ricordo, oltretutto assai sbiadito.

mightyjoemoon
Andiamo avanti: sapevo che tra gli ospiti della trasmissione ci sarebbero stati i Grant Lee Buffalo, del resto mi ero sintonizzato per quello. Da qualche giorno ascoltavo Mighty Joe Moon, dal quale ero rimasto letteralmente folgorato. Ora, non so se ricordate le trasmissioni di Videomusic: se avete meno di quarant’anni, probabilmente no.

Comunque, trasudavano low budget ed estemporaneità da ogni inquadratura: standard inimmaginabili per un canale nazionale contemporaneo. Trasmissioni che erano, anche per quello, perfette. Il trio losangelino era presente in studio, aveva a disposizione un palco piccolissimo, anzi a pensarci bene forse neppure c’era un palco vero e proprio. Quanto al pubblico, si trattava di un pugno di ragazzi sistemato su una tribunetta occasionale (o erano sedie?). Il pubblico poteva confrontarsi con l’ospite, fare domande, esprimere apprezzamento o critiche senza filtri apparenti. Una roba abbastanza anni Settanta, che del resto si erano conclusi neppure quindici anni prima.
Tra le altre cose che non ricordo, ci sono i pezzi che i GLB suonarono: quasi certamente Mockingbirds, il singolo trainante che non trainò abbastanza (malgrado fosse bellissimo), forse anche la piuttosto immediata Side By Side, oppure l’epica Rock Of Ages. Ma non ci giurerei, non sono altro che sensazioni o, se preferite, ipotesi. Quello che ricordo invece, con una certa lucidità, è la postura, l’atteggiamento, l’espressione di Grant-Lee Phillips durante la chiacchierata (non la definirei intervista) col conduttore: il corpo arcuato, la chitarra a tracolla, la mano sinistra a fissare un accordo immobile sulla tastiera, la destra a mimare pennate mute. Poi, soprattutto, ricordo il suo sguardo: lo sguardo di chi non è disposto ad accettare i termini di quello scambio, il rito vuoto della chiacchiera televisiva, il respiro corto delle solite risposte alle solite domande. Lo sguardo, insomma, di chi vorrebbe soltanto suonare, di chi solo suonando – e cantando, nel suo caso – sa dire ciò che sente di dover dire.

MJM-retro
Venne quindi il momento del pubblico. Un ragazzo – nel mio ricordo nebuloso sono convinto che fosse abbastanza robusto e barbuto, e che portasse occhiali dalla montatura spessa – si rivolse ai tre musicisti con tono perentorio. Distante da loro non più di un paio di metri, pronunciò più o meno le seguenti parole:

in questo momento siete senza alcun dubbio una delle band più importanti del mondo, forse la più importante. Ne siete consapevoli?

Silenzio in studio. Quanto a me, trattenni il respiro. Ascoltata la traduzione, Paul Kimble – il bassista – e Joey Peters – il batterista – indossarono l’espressione sorpresa e compiaciuta del caso. Grant-Lee, invece, no. Inarcò il corpo ancora di più, ostentò la chitarra (la sua mitraglia, il suo scudo), affilò lo sguardo e indurì l’espressione: aveva individuato il nemico, l’ennesimo. A vederlo, Grant-Lee sembrava aggressivo, pericoloso. Sembrava dirti che la sua musica non poteva essere che quella parata di miraggi caldi e ostili, il riflesso di una lama puntata alla schiena della nostra cattiva coscienza, una disperazione languida e tumultuosa, affamata di fantasmi elettrici e polvere antica. Sembrava estremamente consapevole del fatto che la dimensione della sua musica eccedeva quel contesto e molti altri, anche molto più ampi, ma che ciò non poteva essere detto, dichiarato, celebrato.
Senza pronunciare una parola, Grant-Lee diceva – mi diceva – che quell’incantesimo languido e corrosivo non sarebbe sopravvissuto alle luci dei riflettori. Si sarebbe diluito, disinnescato, dissolto. Ed era inevitabile che accadesse: i riflettori, la dissoluzione, tutto ciò rientrava nell’ordine delle cose. Era l’ordine che ricomponeva la frattura. Era la frattura che, ricomponendosi, raccontava una storia, la propria storia. E trasmetteva un senso, uno straccio di senso, malgrado somigliasse a un fallimento.

***

Il 20 settembre del 1994 usciva Mighty Joe Moon, uno dei dischi più belli che abbia mai ascoltato. Dopo tutti questi anni, finalmente ho trovato il coraggio di scriverne una recensione (appena pubblicata su Sentireascoltare). Averlo vissuto in tempo reale, avere assistito a una data del tour che lo presentava al mondo (come supporto a quello di Monster dei R.E.M., un opening così potente che da far sembrare fiacchi i primi pezzi di Stipe e soci), lo considero un autentico privilegio, uno degli eventi più emozionanti che mi sia capitato di vivere da quando il rock ha deciso di tenermi prigioniero.

5 commenti

    • Nel mio ricordo, quel ragazzo era un proto-hipster dalla posa piuttosto calcolata, forse la domanda voleva essere provocatoria, ma in quel contesto – la trasmissione non sembrava costruita e pianificata in ogni dettaglio come quelle contemporanee – sembrava più un atteggiamento da appassionato totale. Del resto, in quei giorni amavo così tanto Mighty Joe Moon da pensarla più o meno allo stesso modo 😉

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