Si celebrano oggi gli anniversari di due dischi molto diversi, tra i quali tuttavia non mancano elementi in comune. Dieci gli anni di separazione: il 15 giugno del ’79 usciva Unknown Pleasures, primo album dei Joy Division; nello stesso giorno del 1989 vide la luce Bleach, l’esordio dei Nirvana.
Manchester e Seattle: città per molti aspetti cruciali eppure periferiche, dotate di quella visione decentrata che le rende culturalmente acuminate, votate alla rottura come chiave per guadagnare volume e incidenza su un fronte dominato da altre capitali.
Unknown Pleasures arriva alla fine di un decennio schiantato dal punk – in termini musicali, culturali e di costume, di prassi produttive, economiche e promozionali – e si sporge sugli 80s col volto livido delle visioni poco incoraggianti. I Joy Division si propongono quindi come alfieri della fazione dark della cosiddetta new wave, rifacendosi scopertamente alle intuizioni misteriche del team berlinese (Bowie, Eno, Visconti, Iggy Pop, Fripp, Belew…) fautore di capolavori seminali come The Idiot e Low (uno dei primi nomi della band era, non a caso, Warsaw).
Dal canto suo, Bleach raccoglie molte istanze hardcore punk e più in generale alternative degli 80s, intese anche e soprattutto (vedi il caso dei Pixies) in opposizione alle pressioni dell’industria, carburate dalla rivoluzione del CD e da quella estetica/promozionale seguita alla caduta sul mondo dell’asteroide MTV. In un certo senso, mentre i Joy Division annunciavano il suono cupo di una possibile (probabile) sconfitta che si sarebbe consumata nel cosiddetto “decennio edonista”, proprio alla fine di quest’ultimo i Nirvana annunciano una sconfitta che malgrado le apparenze si è già consumata, e che malgrado ulteriori apparenze i 90s finiranno di consumare (“grunge is dead”).
Altro elemento in comune di questi due dischi è di aver preparato il terreno a quelli che vengono popolarmente considerati gli autentici capolavori delle band, Closer e Nevermind. Rispetto ai quali suonano ben più affilati, rabbiosi, bruschi. Quasi che fossero il veleno in attesa dell’antidoto, l’urlo prima della forma, che nei lavori successivi troverà compimento e quindi – quindi – una formidabile normalizzazione. Quanto al suicidio dei rispettivi frontman, parolieri e cantanti, questa sorta di implosione della voce (nel caso di Cobain una “voce” che comprende la chitarra) che innerva canzoni perlopiù lancinanti, non c’è neppure bisogno di dire: mi faccio bastare quello che vedo nei loro sguardi, uno stesso punto di fuga che oltrepassa il pubblico – una qualsiasi idea di pubblico – per convergere dove ho quasi paura di capire.
Due suicidi, duole dirlo, fondativi, soprattutto per come hanno scoperchiato la reale natura del loro fallimento umano, intrecciato a doppio filo col successo artistico. L’eredità dei Joy Division e dei Nirvana è stata ovviamente diversa eppure simile: nei “discepoli” – anche nei casi migliori – il senso di emulazione è palpabile e ti lascia il retrogusto di un’insoddisfazione sottile, l’ombra pastosa dell’autoinganno.
Unknown Pleasures e Bleach furono, se volete, l’apertura e la chiusura della stessa parentesi in un’equazione che non finisci mai di calcolare, il cui risultato conta meno del processo emotivo a cui ti inchiodano. Ma il risultato c’è, e non è – ahinoi – quello auspicabile.
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