Il 28 settembre del 1991 Miles Davis lasciò questo mondo. Lo fece imprecando contro i medici che volevano intubarlo dopo un colpo apoplettico. Aveva 65 anni. Lasciò questo mondo diverso da come lo aveva trovato, Un mondo diverso anche grazie a lui, che non aveva mai rinunciato a cambiare ancora e ancora, sempre, le carte in tavola.
Questo racconto non parla di Miles, ma dell’impronta di una sua esibizione su due esistenze immaginarie che da quel momento sono cambiate, irreversibilmente cambiate. Questo racconto, quindi, parla di Miles.
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Bye Bye Blackbird
Due uccelli si attorcigliano in volo. Scuri, leggeri, vertiginosi. Si toccano senza toccarsi. Si separano, schizzano fuori dal mio campo visivo. Mi distraggono. Li cerco istintivamente facendo girare lo sguardo, ma torno subito a concentrarmi sulla strada.
La rampa fa un anello attorno al centro commerciale. La percorro a velocità un po’ più alta del solito, assorbendo la spinta centrifuga. L’asfalto umido mi provoca una tensione sottile, il timore che gli pneumatici decidano di slittare, di mollarmi.
Infine la rampa si raddrizza, punta la confluenza del raccordo laggiù. Vedo le luci arancioni. Vedo i fari tremolare attraverso la fatamorgana dei gas di scarico. Ecco di nuovo quei due uccelli avvinghiati in un volo solo. Gli stessi di prima, credo. Spizzicano l’aria elettrici, veloci come schegge di tempo.
Il cielo è di un grigio chiaro dove forse dovrebbe esserci il sole.
***
Parigi, 1957
Luigi indossava quel vestito chiaro, attillato. Una scintillante cravatta blu. I capelli stirati, i baffi sottili. Non era bello, Luigi, ma quella sera sembrava splendere. Quanto a me, mi presentai col mio abito nero un po’ frusto. Vai benissimo, mi fece, strizzando l’occhio. Mi sistemò i capelli, mi colpì il mento con un buffetto.
Poi l’odore del tassì, quell’odore da tassì parigino. Avevo smarrito l’orientamento già da un pezzo, quando arrivammo al jazz club. Dentro, una sinfonia di nero e avorio, applique di ferro battuto, luci cremose, il cicaleccio di mille conversazioni. Un impasto di umanità sotterranea, acuta, consapevole. Accogliente, in fondo.
Ci fecero accomodare a un tavolo già occupato da tre persone. Due ragazze e un ragazzo. Avevano più o meno la nostra età, ma tra loro correva una tensione quieta che li rendeva in qualche modo distaccati, come se vivessero in un altro ordine di tempo ed energia. Quando ci sedemmo, ci guardarono appena. Fumavano, rivolti al piccolo palcoscenico ancora vuoto. Qualcosa di febbrile nella loro attesa.
Dopo qualche istante, ecco il cameriere. Luigi ordinò un demi-sec che non potevo permettermi, facendomi segno che ci avrebbe pensato lui. Poi mi indicò un tipo di mezza età, gli occhiali d’osso, l’aria compunta e la bocca come un taglio sdegnoso. Luigi si avvicinò. È un letterato importante, mi disse. Un esistenzialista, aggiunse scolpendo ogni sillaba.
Fu allora che i musicisti occuparono il palco. Di quello che accadde dopo, non ricordo che la musica. E lo sguardo di Frances. Frances era una delle ragazze sedute al nostro tavolo. Ad un tratto mi guardò con una specie di sorriso. Era bella. Non capii subito che era bellissima.
A incuriosirla fu il mio pallore, mi disse qualche giorno più tardi. Le sembravo uno che stava per piangere. Può darsi, le risposi.
Quel trombettista era incredibile.
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L’uscita per il policlinico è comodissima. Da quando è stata aperta, due mesi fa, risparmio almeno venti minuti. Il policlinico è un mostro di luci a dodici piani e otto settori. A ogni settore è associato un colore. I colori ti guidano fin dal parcheggio.
Quando varchi il grande portone di vetro dell’ospedale, otto strisce colorate sono lì che ti aspettano: stampate sul pavimento, replicate sul cartellone pensile. Cerchi tra i colori quello giusto, quello assegnato dal destino. Non devi fare altro che seguirlo. A testa bassa, seguo la striscia arancione. Verso il quarto settore.
La striscia s’interrompe con un cerchietto di fronte a una batteria di ascensori. Velocissimi. Silenziosi. Puliti. Mai guasti. Schiaccio il tasto del settimo piano. Reparto di rianimazione.
Da sei mesi Frances non dà segni di vita. Atonia. Areflessia. Funzioni vitali assistite. Coma irreversibile.
Non sente dolore, mi assicurano.
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Il trombettista era incredibile. Un nero americano. Piuttosto famoso, a sentire Luigi. Piccolo, energico, teso. Gli occhi come vampe. Suonava con una serietà minacciosa e sacrale, come se aggredisse le note prime di stenderle. Note lunghe che s’arricciavano, piccole raffiche e sfarfallii. Frasi cupe, folate vetrose, sospensioni assorte.
Quel rito ipnotico e grave venne di colpo spezzato da una melodia più leggera, un’impudenza a cuore divertito. Il motivo partì quando ancora doveva spegnersi la malinconia impenetrabile del precedente. Fu strano. In qualche modo quell’effervescenza inattesa mi sembrò familiare, anche se ero certo di non averla mai sentita. In ogni caso, sollevò il pubblico da quella specie di stregoneria, spinse gli sguardi a volare intorno, a specchiarsi nelle espressioni rapite. Fu allora che i miei occhi incontrano quelli di Frances. Il suo sorriso. Le sue guance arrossate dall’emozione. Una fragilità da ferita aperta che chiedeva d’essere indagata, compresa, forse curata.
La sua persona mi si rivelò come una presenza inevitabile. Era sottile, problematica, aperta. La pelle del volto sembrava vibrare, come se stesse affiorando un’impazienza luminosa. Era bella. Bellissima.
Risposi al sorriso. Le appartenni per sempre.
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Conosco l’infermiera. È quella che somiglia a Juliette da giovane. Gliel’ho detto, qualche settimana fa, quando ancora venivo a vegliare Frances la notte. Dormivo sulla poltroncina, come al solito. Mi svegliò e mi disse che c’era una stanza vuota, con un letto, se volevo potevo sdraiarmi. Le risposi: somigli a mia figlia da giovane. Lei trasalì giusto un attimo. Poi sembrò capire.
Non la vedo da un pezzo, Juliette, mia figlia. Da mesi. Abita a Parigi. Città meravigliosa e inevitabile, a quanto pare. Eppure Frances, mia moglie, che a Parigi è nata, ha scelto di stare qui. Non ha mai dimostrato alcun rimpianto. Un po’ di nostalgia, certo. Tra i due il vero nostalgico, da non credere, sono io. Amo Parigi. Fino a pochi anni fa ci andavamo spesso, a trovare Juliette. Una brava ragazza, capace, intelligente. Una gran donna. Come sua madre. Domani la rivedrò. Decollerà fra poche ore.
Abbiamo deciso di non dirle tutto, di risparmiarla fino all’ultimo. Non farla venire, mi ha detto Frances, una delle ultime volte che mi ha parlato. Ma non sarebbe stato giusto.
Frances adesso è questo bozzolo di pelle e luce. Ossa che sporgono. Il respiro impalpabile, indotto. Le piaghe nascoste, soffocate dai lenitivi. Lenzuoli che coprono corpo scarnificato, tubicini, cavi, sacche di drenaggio.
Il pulsare e sbuffare smorzato dei macchinari è il mio contatto più concreto con lei.
Le bacio la pelle asciutta, fresca e sottile. La guardo. Le labbra socchiuse. Il mento consumato. L’ombra dell’iride sotto la palpebra. Quel pallido anemico eterno isolamento. Quella bocca. Quel corpo.
Appoggio la borsa sulla sedia accanto al letto. Lentamente. Fa un rumore metallico appena udibile.
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Passavamo pomeriggi interi a fare l’amore nel suo appartamento di Petit-Montrouge. Fuggivo prima che chiudessero i negozi per non incontrare la coinquilina, una commessa di Van Cleef. La mattina dopo la chiamavo al numero dell’università. La sua voce al telefono era irresistibile. Antonio, diceva. E io: dillo ancora. Lei ripeteva e il mio nome sembrava nuovo, una parola mai udita. Tre sillabe che potevo quasi vedere formarsi sulle sue labbra. Tre sillabe che mi raggiungevano con un fremito attraverso i processi di trasduzione elettrica. An-To-Nio. Amavo quel suo modo di indugiare sulla seconda enne prima di spalmarla sul dittongo finale. L’effetto era assieme ingenuo e sensuale. Conteneva tutta la tensione, l’attrazione innescata dalle nostre diversità. Diversi i nostri mondi, gli spazi, i tempi, le parole. Il mio pallore raffazzonato e il suo volto di seta. La sua voce, il mio ascoltare.
Le dissi, Dici il mio nome come lo suonerebbe quel trombettista.
Mi disse, Era bellissima, quella canzone, vero Antonio. Quella canzone che ti ho guardato.
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L’infermiera mi sta fissando. Stasera non riesce neppure a dirmi buonasera. Le sorrido, e mi viene un’espressione penosa, credo. Mi lascia solo con Frances. Rimango più o meno immobile per qualche minuto. Non riesco a mettere in piedi un pensiero stabile. Tolgo l’apparecchio dalla borsa. È nuovo fiammante.
Guarda, Frances, dico. Fa sempre comodo un piccolo stereo portatile, no? È di quelli più moderni. Ti stupirai per la profondità del suono. Effetto loudness e virtual surround. Quattro impostazioni d’equalizzazione. Rock, pop, classica e jazz. Lo so, Frances. Non è la stessa cosa. Non sono i nostri vinili, le nostre cassette di fortuna. Gli scoppiettii. I fruscii. Quel solco che salta sempre, quel nastro che s’inceppa.
Vedi, Frances, è tutto ricostruito. Questa digitalizzazione non racconta nulla di nuovo. Ti ricordi quando ne discutevamo? È solo tutto più funzionale, pulito. Una pulizia irreale, infedele, impura. Ma è inutile fare troppo i puristi, Frances. Cosa importa. Lo sappiamo, la vita non è pura, anche quando pensa di esserlo. È un pozzo d’impurità, spesso meravigliose. Vedi come è puro, asettico, questo marchingegno che ti tiene viva.
Inutilmente viva.
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Ma come, Antonio. Non avevi mai sentito parlare di Miles Davis?
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Morte cerebrale, hanno detto. È per questo che ho firmato. Anche se non ci credo, a questa storia della morte cerebrale. Ma non importa. Ho firmato.
Domani spegneranno tutto, Frances. Sarai riconsegnata al tuo vivere. Che è morire. Come me. Presto, molto presto, vedrai.
Ma ora, ascolta. Funziona bene questo affare, vero? Alta fedeltà, una potenza insospettabile. Perdonami se alzo il volume, Frances, ma se c’è una possibilità, anche piccolissima, che tu possa sentire qualcosa, è questa canzone che devi sentire. E riconoscere. Certo che è lei, Frances. È quella canzone.
Quella che mi guardasti. Che diventammo noi.
[…] era pienamente giustificata, ma in alcuni ho trovato qualche elemento di curiosità (uno lo trovate qui, un altro qui e un altro ancora qui). È accaduto anche per il raccontino che segue, nel quale in […]
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[…] fare molti altri esempi, solo limitandosi alla musica: Miles Davis, James Brown, Nina Simone, John Lennon, Ian Curtis… Ognuno di questi grandi artisti si è […]
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