Festeggia venti anni Donnie Darko, ma non è semplice individuare con precisione l’anniversario. Fu presentato infatti al Sundance nel gennaio del 2001, ma in effetti la sua uscita nelle sale avvenne qualche mese più tardi, a ottobre. Non è un particolare di poco conto, anzi. Uscire dopo l’undici settembre fu probabilmente il motivo che ne determinò il flop al botteghino: la ferita nell’immaginario degli USA era ancora troppo fresca e dolorosa per consentire la visione sufficientemente serena di una vicenda che tra le altre cose prevedeva un’abitazione semi-distrutta perché centrata in pieno dal motore di un aereo. Pochi anni dopo però, per uno di quei meccanismi difficili da comprendere e spiegare, la pellicola rientrò in circolazione con prepotenza nel settore dell’home video, oltretutto in versione “director’s cut” (venti minuti in più di girato), divenendo un vero e proprio fenomeno di – come dire – “culto diffuso”. Per una serie di circostanze, non fui tra quelli che lo acquistò o lo noleggiò. L’ho visto solo adesso. A vent’anni dalla sua uscita.

Pochi film mi hanno lasciato sensazioni più contraddittorie. Poche volte mi è capitato di vedere i punti di debolezza e di forza saldarsi a tal punto da coincidere. Ma è meglio procedere con ordine. Innanzitutto, si tratta di un ibrido tra più generi, con il college movie e il thriller psicologico in primis, più elementi horror e fantascientifici, questi ultimi appena un passo indietro ma evidenti e soprattutto sostanziali. Accade così – presumo che tutti lo abbiate visto, quindi mi perdonerete gli eventuali spoiler – che Donnie, studente affetto da disturbi psicologici e in cura perciò da una psicoterapeuta (lo interpreta un quasi esordiente Jake Gyllenhaal), debba vedersela con un paio di cattivoni stereotipati, quindi con la nuova compagna di classe carina e misteriosa (Jena Malone), con una famiglia comprensiva ma fin troppo “normale” per i suoi parametri, con un’insegnante e il preside bigotti a cui fanno eco due professori “illuminati” (uno dei quali è Drew Barrymore, anche produttrice della pellicola), e soprattutto con il suo mostruoso amico immaginario, il “conigliesco” Frank, che lo spinge a compiere atti di teppismo quando non criminali. A ciò si aggiungano altre figure tipiche come una vecchia pazza – Nonna Morte – che custodisce l’immancabile mistero (risulterà decisivo) e un predicatore laico – Jim Cunningham – tanto moralmente esemplare quanto segretamente perverso (un Patrick Swayze patinatissimo e repellente).
La storia sfrutta un topos tra i più ricorrenti nel cinema sci-fi (a partire da Ritorno al futuro, film peraltro citato dal protagonista), quello del wormhole con relativo paradosso temporale. Tuttavia, per quanto ingombrante, il tema è più un pretesto che non il perno della vicenda. L’obiettivo sembra essere un altro: oltre alla celebre commedia fantascientifica di Zemeckis, si avvertono tracce di Carrie, di Footloose, di Stand By Me, di Breakfast Club, di Poltergeist, di Nightmare, insomma di tutto un immaginario che pur incarnandosi in generi diversi può essere ricondotto al filone trasversale definibile come “cinema di formazione problematica anni ‘80”. Il bello è che Richard Kelly, regista esordiente nonché autore del soggetto, non si preoccupa affatto di nascondere il gioco né di risolvere le inevitabili incongruenze, anzi pare divertirsi a spingere il piglio citazionista fino al limite, fidando nella partecipe complicità dello spettatore. In ragione di ciò, alcuni personaggi (Cherita Chen, Nonna Morte, la professoressa Farmer, Jim Cunningham…) appaiono così didascalici da sfiorare il grottesco, rendendo vana la questione stessa della loro credibilità. E accade proprio questo: non ti chiedi se sei disposto a crederci. Anzi, sei spinto fin da subito a sospendere l’incredulità, a partire dai primissimi fotogrammi che spostano il baricentro in una dimensione ambigua, tra crepuscolo e alba, tra veglia e sogno.

La scelta di collocare la vicenda nel 1988 è emblematica in merito all’intenzione di chiudere un cerchio, di alludere al loop temporale fittizio (quello del warmhole) attraverso un loop reale: in una delle prime sequenze assistiamo infatti a un dibattito televisivo tra Michael Dukakis e George Bush, quest’ultimo destinato come ben sappiamo a diventare il 41° Presidente degli USA. Nell’estate del 2000, quando avvennero le riprese del film, il di lui figlio George W. Bush si avviava a battere Al Gore in una delle più controverse elezioni presidenziali di sempre (Hail To The Thief, ricordate?), diventando così il successore di Bill Clinton. Probabilmente Kelly non poteva immaginare questo scenario al tempo della stesura del soggetto, ma senz’altro deve averne tenuto conto durante le riprese. Quello che certo non poteva sapere era che la presidenza Bush Jr. avrebbe dovuto fare subito i conti con un evento di proporzioni storiche (l’undici settembre) proprio come era accaduto a quella di Bush Sr. (l’abbattimento del Muro di Berlino), e che entrambi avrebbero guerreggiato in medio oriente contro lo stesso nemico. Presumo invece che Kelly avesse ben chiaro che il 1988 può essere considerato l’ultimo anno del “vecchio ordine mondiale”, ovvero di quel “secolo breve” teorizzato dal grande storico Eric Hobsbawm nel suo celebre saggio.
Tutto lascia credere che l’ambientazione storica sia stata scelta con cura, anche perché il rapporto di Kelly con il tempo sfiora il maniacale. Basti pensare che la vicenda raccontata dal film si consuma in 28 giorni, gli stessi che sono serviti a Kelly ad abbozzare il soggetto così come quelli poi riservati alle riprese. Inoltre, il conto alla rovescia prima della fine del mondo annunciata da Frank parte da 28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi, numeri che sommati danno 88, ed eccoci tornati all’anno in cui si svolgono i fatti. Si pensi infine al rapporto nevrastenico tra il Bianconiglio (di cui la maschera di Frank è con ogni probabilità una sorta di riflesso malvagio) e lo scorrere del tempo. Serve altro?
Questa intricata vicenda a base di schizofrenia paranoide, pulsioni adolescenziali, allucinazioni profetiche, teorie sci-fi e repressione perbenista sembra quindi alludere a qualcosa di più ampio: al profondo horror vacui di chi intuisce la paralisi della Storia attraverso le apparenti rivoluzioni, e quindi l’angoscia del falso movimento, la trappola del gattopardismo universale. Rispetto alla sua giovane esistenza, Donnie è allo stesso tempo soggetto e attore, sempre più consapevole di ciò che (gli) sta accadendo eppure costretto a recitare, posseduto dall’altra parte di sé annunciata dal proprio stesso ghigno psicotico. Tuttavia, c’è qualcosa di più sereno e stranamente allusivo nel sorriso di Donnie al suo risveglio, nella prima scena del film, e quando si mette sotto le coperte per consegnarsi al suo destino, in una delle scene conclusive: si tratta di un ulteriore anello narrativo (la prima e l’ultima volta in cui vediamo Donnie) che irrobustisce il sospetto che tutta la storia sia stata solo (solo?) un’allucinazione, ricordando perciò il sorriso ebete di Noodles/Robert De Niro preda delle nebbie dell’oppio nel finale di C’era una volta in America.
A ciò si aggiunga una soundtrack che si apre con The Killing Moon degli Echo & the Bunnymen (ogni riferimento alla maschera di Frank è, presumo, voluto) e quindi mette in fila Joy Division, Tears For Fears, The Church e, ok, persino i Duran Duran.
Le canzoni hanno chiaramente una funzione atmosferica, servono a saldare la memoria degli 80s come solo la musica sa fare (o, nel caso specifico, la videomusica: Kelly costruisce alcune sequenze come dei veri e propri clip). Ma c’è pure un aspetto narrativo, come nel caso di Head Over Heels, pezzo che accompagna quella che ha tutta l’aria di una vera e propria parata dei personaggi prima che lo show abbia inizio, concedendosi anche di calare sul tavolo qualche indizio, come ad esempio fanno gli emblematici versi finali:
In my mind’s eye
One little boy, one little man
Funny how time flies