Senza sbocco: M. A. Peterson – I ragazzi di Cota Street

“So che è difficile. So che sei triste. Ma so anche che queste cose accadranno. Vado a cercare tua madre. La raggiungerò presto. Tu pensa solo a tenere la pistola a portata di mano (con i 16 colpi nel caricatore)” 

Con queste parole il padre di Vera Violet conclude una lettera che traccia il perimetro di minaccia e inevitabilità attorno alla figlia, i confini di un mondo che non contempla redenzione né vie di fuga. Siamo nello stato di Washington, a David per la precisione, cittadina di falegnamerie su cui si è abbattuta come una tormenta la globalizzazione coi suoi cambi di paradigma e una crisi economica che fa prigionieri e getta la chiave. La vicenda si svolge presumibilmente a metà degli anni Novanta, al massimo nei primi anni Zero: lo deduciamo dall’assenza di qualsiasi riferimento a telefoni cellulari o internet, così come dalla musica che gira tra le orecchie dei protagonisti, ragazzini e poi ragazzi alle prese con Mark Lanegan e Cracker, Mazzy Star e Radiohead, Dropkick Murphys e Dead Boys, ma anche Dylan, Lou Reed, Toots And The Maytals e Johnny Cash. 

Ragazzi, già: girata l’ultima pagina di questo I ragazzi di Cota Street, fai fatica a pensare che Vera, Annie, Colin, Jimmie, Brady e Kat non abbiano più di vent’anni, e quanto siano già tremendamente segnati, per non dire spacciati, dopo una vita breve vissuta sulla graticola gelida di luoghi e strade senza sbocco. L’autrice Melissa Anne Peterson è una debuttante, appassionata di biologia (ha passato dodici anni in un centro di recupero per le specie protette tra lo stato di Washington e il Montana) ma anche di letteratura, tanto da portarla a frequentare scuole di scrittura creativa con tenacia e a maturare quindi uno stile frammentario, febbrile, batterico, segnato da improvvise vampe liriche costantemente in bilico sull’eccesso. Il contrasto tra i periodi brevissimi – quella specie di dispacci emotivi telegrafici – e le ricognizioni abbacinanti nel nero dell’anima (col filo teso tra rabbia e disperazione sempre sul punto di spezzarsi) conferiscono alla lettura un ritmo granuloso, sincopato, come se la memoria di Vera – un io narrante che galleggia tra focalizzazione interna e onniscienza – subisse la pressione costante di forze più grandi di lei, di un’ostilità che inzuppa ogni istante e spigolo della realtà, logorandone l’equilibrio, la capacità di sopportazione. 

Vera è una guerriera che si porta dentro la consapevolezza della sconfitta. Non c’è un solo momento di serenità in tutto il libro perché anche la passione, l’affetto, i rari momenti di orgoglio vengono investiti dalla luce spiovente del fallimento, della tragedia che incombe col suo assedio sordo, pronta ad amputare i sogni. La comunità è un catalogo di regole sfilacciate e opportunità esauste, la scuola una possibilità reale da cui la realtà tenta di strapparti e spesso ci riesce. Melissa Anne Peterson sembra suggerire che questo “ieri” è lo spettro vivo in un “oggi” che stampa, televisione e web non vogliono o non sono in grado di raccontare, da ciò – credo – la scelta di ricorrere a una struttura anti-cronachistica, non lineare, ostinatamente rapsodica. 

Melissa Anne Peterson

In tutta sincerità, non sono pochi i passaggi che mi hanno infastidito, in cui avrei voluto idealmente sostituirmi all’editor e tagliare aggettivi, avverbi, interi periodi. Eppure questa scrittura generosa e squilibrata, visionaria e claudicante, lucida e scivolosa, riesce a sembrare il modo migliore per raccontare la storia di un pugno di ragazzi perduti, lasciati annegare in un mare gelido, soli con le proprie dipendenze sempre più distruttive, con l’anaffettività di famiglie disastrate, con la prostituzione e le gravidanze precoci, con il fiato corto di progetti di rivalsa che si trascinano sulla linea di confine tra fallimento e mediocrità. 

Vera insegue una purezza impossibile lungo i margini, fugge in un’altra città (St. Louis), tenta di mettere a frutto quel po’ di talento (disegna, guarda un po’ la combinazione, come uno dei protagonisti di Motel Life) ed empatia in un istituto per orfani, mentre la pagina bianca del futuro somiglia a un bersaglio indifferente su cui puoi scaricare proiettili e rabbia senza ottenere niente in cambio. È un personaggio vivo anche se sfuggente, un individuo senza individuazione, un amalgama di tensione vitale bruciacchiata e socialità scolpita a fatica su un grumo di istinti. Proprio per questo, in lei la dimensione simbolica sembra prevalere su quella realistica, ed è un po’ quello che mi viene da pensare di tutto il romanzo, che per molti versi mi ha ricordato il monito lacerante di Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, simile il senso di rivelazione, di tappeto sollevato a scoprire situazioni che si preferirebbe ignorare, anche se qui tutto sembra soffocare sotto la cappa di una condanna preventiva, di un “residuo passivo” che la società non può permettersi di gestire e si limita a cancellare. 

Temo invece che un Paese intenzionato a tornare “di nuovo grande”, un qualunque Paese che voglia darsi un qualunque progetto politico, non possa concedersi il lusso di cancellare niente, soprattutto quando significa abbandonare vite e lacerare tessuti sociali filo dopo filo. Questo piccolo, lacerante romanzo tenta con tutte le sue forze di ricordarcelo.     

P.S.

Per quel che vale, questo libro ci ricorda anche quanto il grunge – sbocciato appunto nello stato di Washington – sia stato più un monito e un sentimento generazionale che non un genere. Prima che la luce abbagliante dei riflettori lo schiacciasse sui suoi stessi cliché, potevi sentirci esattamente questo grido di allarme, rabbia e disperazione

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