
C’è una foto che non amo, scattata nel settembre del ’98, in un angolo di Central Park. Ci sono io allo Strawberry Fields Memorial, con l’espressione delusa. Poco prima avevo percorso il marciapiede sotto Dakota Building per cercare il punto esatto in cui Mark David Chapman sparò (cinque volte) a John Lennon, l’8 dicembre del 1980. Non trovai altro che pietra e pulizia, una facciata austera che sembrava voler dimenticare tutto a favore della propria solennità vagamente pomposa, e un marciapiede che aveva l’aria di essere solo un marciapiede degno di un palazzo del genere.
Anche lo Strawberry Fields Memorial non riusciva ad essere altro che un monumento, seppure diffuso e in parte vegetale, ma sembrava più che altro suggerire il bisogno di accontentare un bisogno di memoria, per “dimenticare un po’ più in fretta”, come cantò quel tale. Io e mia moglie non ci trattenemmo molto, scattata la foto e digerita la delusione tornammo al Dakota, passeggiammo lungo West 72nd Street finché non ci imbattemmo in un BBQ che ricorderò per averci gustato l’hamburger più buono della mia vita (anche se sospetto di avere usato come condimento il bisogno di qualcosa di memorabile da ricordare).
Il complottismo germogliato attorno all’omicidio di Lennon è uno schermo, una cortina fumogena su cui proiettiamo sviluppi retroattivi. Mi interessa di più pensare a ciò che avrebbe potuto essere. Del Lennon solista non abbiamo avuto molto, poco più di cinque anni, dal ’70 al ’75. La seconda metà dei Seventies la passò scoprendosi padre, crescendo Sean. Sembrò essersi ritirato, non provava più interesse per la musica, o almeno ristabilì certe gerarchie. Il rientro sulle scene con Double Fantasy ebbe perciò una risonanza clamorosa: fu pubblicato il 17 novembre, conteneva 14 canzoni, 7 di John e 7 di Yoko. Tre settimane più tardi, sotto al Dakota, i proiettili di Mark s’infilarono nella schiena di John.
Nei primi cinque anni post-Beatles accadde di tutto: due grandi album come Plastic Ono Band e Imagine, un terzo lavoro meno ispirato come Mind Games (ma la cui title track è forse la canzone più bella del suo repertorio), la crisi della relazione con Yoko che provocò la separazione e il celebre “lost weekend”, diciotto mesi durante il quale accadde di tutto: visse assieme a May Pang (la segretaria particolare della Ono, futura moglie di Tony Visconti), si concesse a leggendari bagordi losangelini (assieme a Keith Moon, Alice Cooper e Harry Nilsson tra gli altri), sfornò un altro album ancora più sfocato (Milk And Honey) e uno terribilmente nostalgico (Rock’n’Roll, le cui sessioni – sotto la conduzione di Phil Spector – furono un caos alcolico sul punto di finire in tragedia), frequentò David Bowie assieme al quale scrisse Fame (il più grande successo commerciale dell’ex-Ziggy Stardust fino ad allora), infine ricucì il rapporto con Paul e Linda McCartney, preludio al ritorno da Yoko. Fu a quel punto che il trentacinquenne John Lennon decise di essere padre, dopo non esserlo stato abbastanza quando – dodici anni prima – era venuto al mondo Julian.
Cosa sarebbero stati gli Eighties di Lennon? E dopo ancora? Il sacro furore post-Beatles, come detto, fruttò due album formidabili come Plastic Ono Band (1970) e Imagine (1971), nei quali si consumò ferocemente il distacco da quella cosa enorme che era stata la sua beatlesianità. Soprattutto, come è naturale, in Plastic Ono Band, nella cui penultima traccia si sente accadere qualcosa: al minuto due e trenta secondi di God, Lennon porta a compimento un drammatico crescendo di negazioni con una frase secca, sconcertante: “I don’t believe in Beatles”. La musica stessa si ferma, trattiene il respiro, sembra metabolizzare il messaggio. Quindi riparte, ed è come se un nodo si fosse sciolto. Lennon sostiene di credere ormai solo in se stesso e in Yoko, in Yoko e in se stesso. Prosegue, la voce esausta nella quale avverti appena un’eco della nota vena agrodolce: “The dream is over, what can I say…?”. Siamo al minuto tre, ed è forse questo il momento in cui gli anni Sessanta finiscono ulteriormente, definitivamente.
Il Lennon solista si porterà dentro questa frattura, un sottofondo di febbrile ricerca di sé, il bisogno mentale e atavico di ridefinirsi e la consapevolezza che non avrebbe mai potuto riuscirci senza adottare una strategia di negazione radicale. Limitandosi a un confronto con McCartney* – un tempo anima artistica gemella, complementare e rivale, quindi acerrimo nemico prima della (parziale?) riconciliazione – le differenze saltano agli occhi: se le prime prove soliste post-Beatles di Paul sembrano giocare di sponda con quelle di John (il coinvolgimento di Linda in una sorta di risposta alto-borghese al familismo arty di John e Yoko), formando i Wings l’oculato Macca azzecca l’alibi perfetto per essere se stesso senza combattere (troppo) col fantasma dei Beatles, sublimando cioè nella nuova band un’assenza vissuta senza sostanziale antagonismo, soprattutto percorrendo i Settanta su un treno che evita di fermarsi alle stazioni del prog, del glam, della new wave, del punk, della disco, limitandosi a carburare il motore con un power pop melodico ed entusiasta.
Ciò rappresenterà una sorta di camera di decompressione che gli permetterà, dopo lo scioglimento dei Wings, di affrontare gli Ottanta da solista puro, senza il peso di un passato che a quel punto sembrava appartenere a un’altra epoca. Detto del mezzo passo falso di McCartney (maggio 1980), già con Tug Of War potrà permettersi di richiamare George Martin alla produzione e persino Ringo Starr (alla batteria in due pezzi) senza sembrare un ex-Beatles ma, appunto, Sir Paul McCartney. Non è un grande album, ma sia il tributo a Lennon (Here Today) che il duetto con Stevie Wonder (Ebony And Ivory) lo spinsero molto in alto in classifica, tracciando quel solco da protagonista che manterrà più o meno per tutto il decennio (anche grazie alle fortunate collaborazioni con Michael Jackson). È indubbio comunque che, successo o meno, il McCartney degli Eighties si tenne ben lontano dai vertici espressivi ottenuti coi Beatles e in parte coi lavori dei primi anni Settanta.
La domanda, del tutto gratuita, è: cosa avrebbe combinato invece Lennon? Double Fantasy induce a ritenerlo del tutto impermeabile alla tempesta perfetta messa in piedi dal punk e dalla new wave, alle cui sottotrame nostalgiche aveva già opposto la nostalgia manifesta e invero fiacca di Rock’n’Roll. L’ultimo lavoro pubblicato in vita, Double Fantasy, è un album che saluta gli anni Settanta esalando un disimpegno accomodante già pienamente anni Ottanta (vedi soprattutto quel che canta in Watching The Wheels: “I’m just sitting here watching the wheels go round and round/I really love to watch them roll/No longer riding on the merry-go-round, I just had to let it go“), come ribadirà il postumo Milk And Honey, assemblato del resto a partire da materiale tratto dalle stesse sessioni. La sensazione è insomma quella di un Lennon che, all’alba degli Ottanta, avesse accettato (e di buon grado) di appartenere a una retroguardia capace al più di mettere a segno colpi di classe, ma non di tracciare solchi e sviluppi musicali (culturali) imprescindibili. E quindi?
Il “what if…” è oltremodo impegnativo. Con ogni probabilità il Lennon che non è stato non sarebbe stato al livello del Lennon che abbiamo conosciuto. Eppure, anche accettando l’idea che la sua produzione successiva al 1980 non avrebbe saputo aggiungere granché al suo percorso, penso che Lennon avesse almeno tre assi nella manica: la capacià di mettere a segno sempre, anche nei momenti creativamente più sfocati, almeno uno o due pezzi strepitosi per album; una voce che, per quanto addomesticata, conservava una grana anomala, quasi fosse appena uscita da una spaccatura dell’anima, da uno “staccato” nel vocabolario delle emozioni; in ultimo, ma non ultimo, nei vent’anni precedenti aveva consumato svolte esistenziali profonde, conseguenza di un mai risolto disequilibrio interiore, di un carattere bizzarro fino a sfiorare un dadaismo militante (era o non era un tricheco?) e dell’attrito con tutto ciò che costituiva il consesso sociale (le convenzioni morali e culturali – nonché controculturali – da un lato, l’estabilishment politico ed economico dall’altro). A tutto ciò si aggiunga la particolare reattività al mutare delle circostanze storiche (“I’ve read the news today, oh boy…“), ed ecco che otteniamo un profilo artisticamente imprevedibile. Gli anni Ottanta avrebbero saputo domarlo?
L’interrogativo è destinato a rimanere sospeso come Lucy nel cielo. Resto convinto tuttavia che dagli “ingredienti” della personalità di Lennon sarebbe uscito un cocktail interessante, soprattutto se shackerato a dovere nel “decennio edonista” e quindi in quei Novanta che videro i vecchi leoni anni Sessanta scrollarsi di dosso patinature e cotonature e riemergere come padrini di una rinnovata sensibilità rock (Neil Young, Lou Reed, Bob Dylan…). Un cocktail più interessante, mi si perdoni l’ardire, di quanto non ci abbiano invece servito gli altri tre ex-Fab Four.
Chapman ha commesso un delitto perché ha ucciso barbaramente un uomo. Qualcuno, non senza ricorrere ad ampie dosi di malignità, sostiene che con quel gesto folle e criminale abbia consentito la nascita di una leggenda altrimenti destinata a logorarsi con l’età. Non lo credo: sono convinto che Lennon non avrebbe potuto compiere nefandezze sufficienti a sbiadire la grandezza guadagnata come Beatles prima e come Lennon poi. Soprattutto, ho sufficienti motivi per credere che quei cinque colpi di pistola abbiano impedito ad altre grandi canzoni di “abitare” gli ultimi quarant’anni. Non rivoluzioni, certo che no, ma canzoni. Tante o poche, non importa: qualcuna, lo so, avrebbe saputo accompagnarci, esaltarci, irritarci, meravigliarci. Canzoni che, dopo appena una nota o una sillaba, ci avrebbero fatto pensare: “Lennon”.
È strano quello che provo: somiglia a una nostalgia densa e vischiosa di ciò che non ho (non abbiamo) potuto vivere. E, no, questo a Chapman non riuscirò a perdonarlo.
*tenendo comunque presente che il primo ex-Beatles a segnare un punto decisivo da solista fu George Harrison col formidabile All Things Must Pass (novembre 1970)
Come sempre tantissimi spunti su cui riflettere. Me ne vengono in mente almeno due:
1) Lennon negli anni Ottanta avrebbe calcato il palco (anche una volta sola) assieme agli altri tre ex-Beatles? Forse, ma magari non si sarebbero chiamati Beatles.
2) Potenziali incontri sfumati: Michael Stipe, Kurt Cobain, Thom Yorke (qui la vista si annebbia, troppa roba)
3) Un ritorno a Liverpool, magari ritirandosi definitivamente dalle scene
4) Come si sarebbe confrontato con le nuove tecnologie? Con internet? Immagina come sarebbe stato un blog tenuto da Lennon…
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1) è molto probabile, ma il nome? I Sgt. Peppers è troppo banale? Gli Onion’s Walrus?
2) aggiungerei gli XTC, e – beh – Elliott Smith ❤️. Ah, pure Mark Hollis!
3) Ecco, questa non mi sembra realistica
4) questo è l’aspetto più enigmatico, non ce lo vedo Lennon a suo agio con i social, con i blog forse… Penso però che sarebbe stato un utilizzo istituzionale, filtrato da un social media manager, lo immagino più attivo sul concreto. Ma forse proprio la tensione verso le cause civili lo avrebbero spinto a maneggiare gli strumenti del web. Chissà.
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Bellissimo pezzo! da lennoniano (e beatlesiano) militante. Eh sì, tante domande da farsi su Lennon se non fosse stato ucciso, sui Beatles se si fossero riuniti, quasi da scriverci un bel romanzo per farlo rivivere, anche se in qualche modo ci ha già pensato Ian Mc Ewan con Macchine come me, quindi meglio lasciar perdere 🙂
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Eliott ha interpretato quel brano nelle note finali del film American beauty……sublime.
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Sul punto 4 hai ragione, avrebbe avuto una agenzia. Mah sulle cause…
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[…] fare molti altri esempi, solo limitandosi alla musica: Miles Davis, James Brown, Nina Simone, John Lennon, Ian Curtis… Ognuno di questi grandi artisti si è macchiato di colpe imperdonabili (figli […]
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[…] è psichicamente a pezzi e magro da fare paura, infatti s’impauriscono e non poco gli amici John Lennon ed Elton John, che dichiarano pubblicamente di temere per la sua vita. In questo quadro a dir poco […]
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[…] gustosi dettagli storici conditi da connessioni fragranti (vedi il piccolo ma cruciale ruolo di John Lennon, che consigliò Jimmy Iovine – all’epoca al lavoro con Springsteen per Born To Run – […]
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