Certe cose possono permettersele solo i grandissimi. Prendete Lou Reed: nel ’97 commissionò una chitarra acustica e la fece amplificare da un fidato ingegnere, l’inglese Pete Cornish, inventore del Feedbucker, uno strumento capace di eliminare completamente il feedback. Risultato, un suono puro, intenso e squillante, privo della minima distorsione. Lou s’innamorò così tanto del nuovo balocco che lo mise al centro dell’esibizione al Meltdown Festival, rassegna londinese curata dalla compagna di vita Laurie Anderson.
Certe cose, dicevamo, possono permettersele solo i giganti. Infatti, cosa andò a combinarti Lou in un festival come il Meltdown, dedicato alle “musiche innovative”? Naturalmente, allestì un canonico concerto in quartetto coi fidi Smith, Saunders e Rathke. Una roba calda e tutto sommato accomodante, con licenza d’imbizzarrirsi alla bisogna, di sfogliare disinvolta i petali d’un canzoniere inestimabile. Insomma, un evento che in quel cartellone sembrava come minimo intruso. Oppure no.
Riflettiamo: cosa lo spinse a prendere una decisione del genere? Che la perfezione, a quel punto della sua vita (cinquantacinquenne artisticamente e sentimentalmente appagato) rappresentasse un richiamo inedito, un elemento di novità? Un nuovo specchio in cui riflettersi? La possibilità di realizzare una sorta di contrario – o di ammenda – del famigerato Metal Machine Music? Oppure il paradigma stesso della tensione artistica, che tende ostinatamente verso un miraggio sapendo bene di non poterlo mai raggiungere?
Comunque sia, possiamo contare su questo disco, Perfect Night Live In London (Wea, 1998), che ci racconta cosa accadde quella sera. Non certo un titolo centrale nella discografia di Lou, ci mancherebbe, ma fin dal primo ascolto ho avvertito qualcosa nella sua limpida essenzialità, una specie di gratitudine inedita dell’autore per le proprie canzoni, la sorpresa di scoprirle vive oltre le implicazioni – biografiche, artistiche, accidentali – che ne hanno determinato la creazione. Mi è sempre sembrato, come dire, che Lou ne stabilisse l’autonomia, comprendesse il loro legittimo non appartenergli più nel momento stesso in cui riusciva a scorgerne chiaramente i contorni. Forse proprio grazie alla distanza di quel suono puro, perfetto (anche qui, se ti pare, hai voglia di paradigmi).
La scaletta si apre con una I’ll Be Your Mirror fragile e cruda, dopodiché arriva Perfect Day ed è fatta, siamo sul binario. Seguono tra le altre una Vicious prosciugata folk-blues, una Kicks sordidella e trafelata, il languore sdrucciolevole di Coney Island Baby, una ruspante New Sensation e soprattutto una funkissima Original Wrapper (agli antipodi della versione plastificata in Mistrial), prima di chiudere con l’apoteosi forse un po’ automatica ma ugualmente impagabile di Dirty Blvd. Ci sono anche tre inediti dallo spettacolo teatrale Time Rocker, ma non credo sia per questi che il simpatizzante louriddiano conserva nel cuore Perfect Night.
Al netto di quanto accennato sopra, ma anche in conseguenza di quello, stupisce di questa testimonianza live la verve rilassata, quasi gigiona, la quiete emotiva di chi ha metabolizzato tutte le feste di ieri e regola gli happening di oggi sulla velocità di crociera, sapendo che ciò che conta davvero prevede contesti indefinibili e misure temporali ben più estese. Non è qui che sto giocando la mia partita, sembra dirci Lou Reed tra le righe e i risvolti di una serata perfetta. Di quelle che solo i grandi possono permettersi. Già.
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