Summerteeth: del Wilco che è stato (e che verrà)

Tra l’estate e i Wilco esiste un rapporto particolare, sancito da un disco pubblicato il 9 marzo del 1999. Già: Summerteeth ha più di vent’anni, ragazzi.

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Il 1999 fu un anno molto pop. In senso alto. Nell’aria si respirava, come dire, un bisogno di meraviglia, di perdersi in una bambagia onirica che mirasse a tamponare timori e tremori convergenti nel simbolico collo di bottiglia di fine secolo. Sto ricostruendo a posteriori, ovviamente, eppure – vi assicuro – era davvero così. All’eccitazione per l’imminente ingresso nel terzo millennio si accompagnava un nevaio di preoccupazioni sparse, non meglio definibili ma palpabili.

Fatto sta che, a stretto giro di posta, ci ritrovammo col Jim O’Rourke in fregola Bacharach di Eureka, coi Flaming Lips in sollucchero di The Soft Bullettin e col post-rock intriso di respiri epici del CODY firmato Mogwai. Questi due ultimi titoli furono prodotti da quel Dave Fridmann che appena l’anno precedente aveva diretto i lavori anche di Deserter’s Song dei Mercury Rev, lavoro cruciale per quanto riguarda il vizio di spingere sul pedale delle (stra)visioni senza lesinare sul fattore cinematico degli arrangiamenti.

Insomma, i segnali erano chiari anche se non mancarono di sconcertare gli appassionati. Si trattò di una svolta: cos’altro pensare di fronte a questo stuolo di musicisti dediti fino ad allora a calligrafie pensose, spigolose o tumultuose, di colpo bramosi di rapirti nel loro iperuranio immaginifico? Insomma, quel rock che fino ad allora sembrava volerti agganciare al presente grazie a una recuperata matericità elettrica, oppure metterti in guardia reinventando mappe e schemi sul filo di un’angoscia apocalittica, iniziò a proiettare miraggi suadenti & stordenti col preciso intento di ipnotizzare il rockofilo, di lubrificare con orchestrazioni fastose e struggenti il passaggio nella cupa geografia di tempi nuovi.

Qualcosa di simile accadde con Summerteeth, terzo titolo a nome Wilco a seguire la clamorosa affermazione del 1996 col doppio Being There.

Summerteeth

Tweedy e compagni si poppizzarono a modo loro, senza buttare via nulla, non le radici e meno che mai il mal de vivre. Piuttosto che riporre il folk rock nel ripostiglio, lo addobbarono di festoni, palloncini, paralumi colorati, o se preferite con mellotron, moog, tastiere e chitarre preparate. Una festicciola tra amici pensando allo zio Brian Wilson, pacche sulle spalle a consolare dai troppi disastri, gli occhi intrisi di miraggi per guardare dietro le ferite del mondo, e casomai ci scappino pure due bicchieri di troppo, giusto per sedare l’inquietudine e sciogliere le trecce alla collana di memorie, rimpianti, visioni.

Ed ecco che una canzone via l’altra le chiacchiere sbocciano letterarie, confessioni col cuore in mano pensando non senza amore agli amori appassiti, sorridendo – massì – sul disastro della solitudine mentre il portacenere racconta il naufragio di un’intera notte senza pace. Sentendosi a pezzi, certo, ma cercando di mantenersi interi, aggrappati a melodie splendide, malferme e intimamente indolenzite come She’s A Jar o Via Chicago. O all’estro frizzante ma un po’ disperato di ELT e I’m Always In Love.

Ok, negli anni seguenti ben altri capolavori seguiranno. Ma Summerteeth rimane. Una pietra di paragone sempre sul punto di frantumarsi, eppure meravigliosamente solida. Così solida che loro, i Wilco, sono ancora qui, molto meno cruciali di allora ma ancora vivi, vivi almeno quanto le loro cicatrici. Nelle loro canzoni continui a travare quella fragilità tenace, quella meraviglia affranta ma a suo modo invulnerabile. Perciò riascolare Summerteeth oggi non sembra fuori tempo né fuori luogo.

2 commenti

  1. […] Il 23 aprile del 2002 vide finalmente la luce Yankee Hotel Foxtrot. Non per l’etichetta Reprise, per la quale avrebbe dovuto uscire nel settembre precedente, ma per Nonesuch, eclettica sussidiaria della Warner. La storia è nota, per la Reprise l’album non era abbastanza commerciale, quindi lo rifiutò. Ad oggi, è il disco più venduto nella carriera dei Wilco. […]

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