Una notte e qualche ora dopo aver finito di leggere Annientare, ero ancora alle prese con un bel po’ di sensazioni contrastanti. In particolare, se da un lato questo romanzo fluviale – oltre 700 pagine, se non sbaglio il più lungo di Houellebecq – mi è sembrato fin da subito intriso di mestiere, una di quelle prove tarde scritte col pilota automatico e pensando più spesso del dovuto alle condizioni contrattuali (anticipo, diritti, scadenze…), d’altra parte non sono pochi gli elementi che mi hanno fatto pensare a una summa, ovvero a una specie di bilancio riguardo ai temi che da sempre caratterizzano le opere del sessantacinquenne scrittore francese. A mente fredda – non proprio: diciamo tiepida – e tenuto conto ovviamente della statura di questo apprezzato ma controverso autore, non mi sento di escludere che le due cose possano sovrapporsi e persino, perché no?, coincidere.

La vicenda è ambientata in un futuro assai prossimo, tra il 2026 e il 2027, nel periodo cioè in cui avranno luogo le presidenziali francesi che decreteranno il successore del successore di Macron (su chi vincerà la tornata del 2022, Houellebecq ha le idee chiare ma lascio al lettore il piacere di scoprirlo). Come già in Serotonina (2019) e Sottomissione (2015), e a ben vedere come è sempre stato da Estensione del dominio della lotta in avanti, lo scrittore indossa i panni dell’aruspice/analista, indaga il presente sbilanciandosi sugli sviluppi a breve e medio termine, bazzica cioè una distopia a corto raggio, anzi una anti-distopia, dal momento che non ha bisogno di escogitare chissà quali futuri scenari – appunto – distopici per far emergere storture già evidenti nell’attualità. Si limita, come dire, a dare una spintarella al presente e quindi a sbirciare quel che potrebbe accadere. Vale la pena ricordare che con i due romanzi precedenti si è guadagnato la fama di profeta nientemeno per avere “previsto” i Gilet Jaune e gli attentati di Parigi (ha toppato invece il nome del Presidente del mandato 2017-2022, ma sono dettagli).
Tornando ad Annientare, abbiamo un protagonista assoluto, il quasi cinquantenne Paul Raison (cognome che tradotto significa “ragione”: un aspetto così emblematico da sfiorare il didascalico), ma la terza persona rende libera la penna di focalizzare anche su altri personaggi: a partire dai suoi due fratelli Cécile e Aurélien, quindi sulla moglie Prudence e infine, soprattutto, su Bruno, ministro dell’Economia nel governo uscente.
La vita di Paul è una contraddizione: oltre a essere consigliere di Bruno, carica non certo di poco conto che gli frutta tra l’altro un buon reddito, è figlio di un importante ex-funzionario dei servizi segreti e di una abbastanza celebre restauratrice/artista, quest’ultima da tempo deceduta. Insomma, avrebbe molte ragioni per ritenere la propria esistenza ben più fortunata e interessante della media, ma da anni – da sempre? – galleggia in una zona grigia, sfiora l’anaffettività, l’afasia e un disincanto asfissiante. Tra le conseguenze – o tra le cause? – c’è lo spegnersi progressivo del rapporto con la moglie, ridotto a una convivenza distratta e del tutto asessuata.

Insomma, come capita spesso (quasi sempre) ai personaggi di Houellebecq, Paul considera se stesso – come del resto chiunque altro – più o meno insignificante, consuma la propria esistenza come un lungo “fine vita”. Oltretutto, e a differenza di Cécile, è privo di un qualsiasi conforto spirituale, si considera radicalmente agnostico, di fatto non ha mai provato interesse per una qualunque religione.
Due eventi arrivano a turbare questo plateau, uno privato e l’altro dalla portata addirittura globale: il padre di Paul, Édouard, subisce un ictus che quasi lo uccide, riducendolo a uno stato quasi vegetativo; nel frattempo una serie di attentati sembrano prefigurare un complotto contro le strutture commerciali, tecnologiche e politiche internazionali, proprio mentre sta per iniziare la campagna elettorale che vede Bruno correre come vice presidente. Viene da chiedersi: perché Houellebecq introduce questo materiale narrativo? La sensazione è che lo faccia col preciso scopo di depistare il lettore. O forse perché attraverso il ricorso deliberato alla cassetta degli attrezzi del dramma psico-sentimentale da un lato e del techno-thriller dall’altro, e smorzando sul nascere la possibilità di essere sia l’uno che l’altro, intende dire qualcosa di ben preciso. Ovvero, stabilire un parallelo tra finzione e realtà, tra l’utile inutilità della letteratura di genere e la necessità delle “meravigliose menzogne” affinché si possa condurre in porto il fardello dell’esistenza. In altre parole, Houellebecq sembra porre l’accento sul bisogno di narrazioni come “produttrici di senso”, di trame a cui tenersi aggrappati tra l’inizio e la fine di tutto, prima che quel po’ di terra gettata sulla testa sancisca l’ingresso insindacabile nel nulla.
Tra le molte riflessioni di Paul, eccone una a mio avviso cruciale:
“…rimase comunque stupito, il pomeriggio del giorno seguente, di riuscire a distaccarsi così in fretta dalla propria esistenza (…); cos’altro avrebbe potuto produrre un simile effetto, a parte un libro? Né un film, né tanto meno un brano musicale, la musica era fatta per le persone sane. Ma nemmeno la filosofia sarebbe stata adatta, e neppure la poesia, anche la poesia non era fatta per i moribondi; ci voleva per forza un’opera di narrativa; ci voleva un racconto di vite diverse dalla sua. E in fondo, pensò, quelle altre vite non avevano nemmeno bisogno di essere accattivanti (…), le vite raccontate potevano tranquillamente essere altrettanto monotone e prive di interesse della sua; bastava solo che fossero altre.”
Questo passaggio in particolare mi ha fatto venire in mente Stoner di John Edward Williams, quel dipanare un’esistenza senza sussulti, schiacciata dal sapersi ininfluente e proprio in questo superiore a più o meno tutti gli altri, in ragione di ciò esistenzialmente compiuta perché capace di collocarsi nella posizione più giusta, l’unica possibile. Similmente, l’esistenza di Paul è un beccheggiare verso un destino non speciale, esattamente come quello di ogni essere umano, con la differenza che lui lo ha sempre intuito e giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, ne acquista una consapevolezza sempre più piena.
Proprio su queste basi vengono ridefiniti sia il rapporto col padre, col quale si riavvicina grazie anche all’infermità che ne riduce la vita all’essenziale, che quello con Prudence (a proposito: nome eminentemente “beatlesiano”, lo stesso che ovviamente si può dire di Paul): tra i sensi e lo spirito sembra stringersi così un patto immediato, pre-verbale, che nella contemplazione della natura (del padre e assieme al padre) e nell’ebbrezza degli orgasmi trova gli ingredienti necessari e sufficienti a giustificare il transito terrestre, riassumibili in un desiderio ridotto alla sua essenza, perciò inesauribile. Desiderio che pure, come ogni cosa, è destinato a estinguersi.
“Quello che non poteva sopportare, si era reso conto con inquietudine, era l’impermanenza di per sé; era l’idea che una cosa, qualunque cosa, finisse; quello che non poteva sopportare, non era altro che una delle condizioni essenziali della vita.”
Annientare è disseminato di piccole e grandi sentenze, spesso sprezzanti e perciò tipicamente “houellebecqiane”. Non stupisce che sia scritto con la scioltezza del romanziere navigato che non ha bisogno di dimostrare più nulla. In ragione di ciò risulta piacevole e quindi perturbante: perché il perentorio e inappellabile cinismo che ben conosciamo, autentico marchio di fabbrica di Houellebecq, non ha più bisogno ormai di ricorrere a soluzioni narrative estreme e a situazioni scioccanti. È talmente certo di sé, consolidato sulle proprie posizioni e inverato da ciò che nel frattempo il ventunesimo secolo ci ha portato in dono, da potersi permettere la velocità di crociera, una specie di leggerezza crepuscolare, il carburante del mestiere.
La politica implosa nelle strategie di comunicazione (tema affrontato anche da Topeka School di Ben Lerner), la post-verità come codice dominante, lo svuotamento delle relazioni nei ruoli socialmente assegnati, il disorientamento di fronte al crollo dei sistemi culturali e spirituali: temi centrali di questi anni, che pure potrebbero vacillare e tornare in discussione di fronte a quello della morte come destino consapevole e ineluttabile. Morte che non a caso è il grande rimosso dal catalogo della comunicazione pervadente, con poche anche se sorprendenti eccezioni (vedi il caso di After Life). Una vasta, lucida, totale consapevolezza della morte, quindi, come antidoto alla crisi dell’Occidente? O come unica (ultima) rivoluzione possibile?
Annientare non è il miglior romanzo di Michel Houellebecq, ma è probabilmente quello che doveva scrivere a questo punto della sua e della nostra – di tutti – vita.