Mutazioni impazzite: Io sarò il rovo di Francesca Matteoni

“C’è qualcosa nel paesaggio che rimane inafferrabile al nostro sguardo, perdura, e in quel qualcosa lo scenario assume un tratto inquietante: ci affascina e ci rapisce, perché ci fa paura. Non è la paura dell’ignoto. È la paura di quello che dimentichiamo, dell’altro pianeta che prolifera nonostante tutto, dove non siamo divisi dalle esistenze animali, vegetali, minerali.”

Nei racconti che Francesca Matteoni ha raccolto in questo Io sarò il rovo (appena pubblicato da effequ), il fiabesco è materia ambigua, allo stesso tempo salvifica e spietata. Il loro intento metaforico è palpabile – non potrebbe essere diversamente – e le coordinate verso cui sono diretti abbastanza distinguibili, tuttavia procedono per visioni successive, ramificano attorno a nuclei poetici stordenti che reclamano autonomia, aprendo varchi di splendore in un labirinto spesso cupo, grottesco, claustrofobico.

Matteoni sembra dare per acquisita la rovina, una specie di apocalissi latente anzi già avvenuta proprio perché annidata ovunque (nelle cose, nei fatti, nei linguaggi, nei pensieri). Ma anziché cimentarsi nel distopico – genere che rischia di diventare dominante, e non stupisce – sceglie di spingersi nella “foresta oscura” di un post-realismo magico, dove umano, animale, vegetale e minerale si liquefanno e compenetrano, risucchiati da una spirale di mutazione impazzita, conseguenza e paradigma del crollo delle categorie di pensiero, degli equilibri ecologici, del rapporto tra umano e mondo.

In questa crisi che è anche (inevitabilmente) percettiva, il mondo torna a imporre un codice pre-umano, distorto fino a sembrare maligno, mosso da un’insensatezza crudele, persino beffarda, tanto da fare pensare a un Ballard stregato dai fratelli Grimm.

In tutto ciò, resiste una tensione di purezza e rinascita, una brama di grado zero su cui posare le fondamenta di costruzioni nuove. Un filo che attraversa questo carosello di metamorfosi, collassi ambientali e disfacimenti sentimentali, è infatti la tenacia della narratrice, mossa da una consapevolezza tanto profonda da somigliare a un istinto, custode dell’interrogativo (forse) cruciale:

“Dove ha inizio il mondo, fuori da me?”

Ecco quindi che queste fiabe diventano stradari, sassolini che tracciano sentieri, deviazioni e divaricazioni che sollevano il velo e tentano di strappare lo sguardo alla dittatura del barnum carnefice quotidiano, per rivolgerlo a una dimensione antica e ulteriore dove sei parte di “una riunione di inermi e più nessun colpevole“.

Una lettura suggestiva ed enigmatica, insospettabilmente necessaria.

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