Distopico e fantasmagorico: Tundra e Peive di Francesca Matteoni

Era così, si chiese all’improvviso, che credevano di salvarsi le persone? Dimenticando, nel momento stesso in cui avanzavano per le vie, ciò che rifluiva attorno?

Dopo i racconti di Io sarò il rovo, Francesca Matteoni si mette alla prova con Tundra e Peive, un romanzo che segue quella stessa falsariga ibrida, sulla linea di confine tra distopia, fiaba e fantasy, spargendo sull’impasto spore di disincanto e ironia, per ottenerne – cosa? Difficile a dirsi. Riformulerei: Francesca Matteoni ci mette alla prova con un romanzo anomalo e perturbante, a partire da come rende porosi i confini tra i generi e scivolose le embricature tra i registri, ricorrendo a una scrittura al tempo stesso onirica e fattuale, ricca di infiorescenze visionarie, pieghe da cui trasudano minacce, meraviglie insidiose e mostruosità che sembrano tornare a galla dalle acque nere del rimosso. 

È la storia di un mondo – di un tempo – sconvolto da una malattia che trascende la dimensione umana e colpisce al cuore la natura, rendendola spaventosa, squallida, ostile. Come un tumore planetario che si propaga trasformando l’habitat in un sarcofago, le città che progressivamente si accartocciano sulle proprie macerie, la vegetazione soggetta a inaridimento e marcescenza, un magma tossico e nauseabondo che affiora dalle crepe che spaccano il terreno. 

“Imparerai ogni cosa dal principio, come quando si nasce. Si piange un po’, poi ci si calma, si cresce, si diventa qualcosa, si cerca un altro corpo. Non è così che avviene? Si dà un senso allo schianto che ci porta al mondo. Non se ne è consolati? Sei nuova, ora. Non hai scelta.”

In questo scenario così cupo e gravato da un senso di ulteriore rovina, avviene l’incontro tra Talia – ragazzina dalla sensibilità spiccata e inconsueta – e la coppia bizzarra formata dal folletto Tundra e dal gatto Peive. Toccherà a loro riannodare i fili della memoria e della consapevolezza, catalizzare le forze in gioco, ovvero unire le diverse volontà – piante dotate di parola e poteri magici, una donna misteriosa dall’età incalcolabile, un ragazzo dal volto di lepre, due infide sorelle che giocano col destino del mondo, un uomo imperscrutabile la cui ombra ha la forma di un lupo… – per correggere la rotta, medicare le ferite dell’armonia, restituire ossigeno all’amore, riassestare il tempo fuor di sesto. 

Ma il passato non torna, anche se non smette di passare.

Se la vicenda è un avvincente trapassare di situazioni oniriche, mi ha colpito soprattutto – come dire – la filigrana, cioè il senso di afasia steso su tutto come una pellicola, la sensazione di un mondo deserto di emozioni e intelligenza pur con la catastrofe alle porte. Un disarmo che riverbera in molti protagonisti, quasi dei personaggi da commedia dell’arte incapaci di scrutare nel campo lungo delle prospettive, tuttavia animati da una specie di legge naturale che li spinge nelle caselle giuste mentre la palpebra del tempo si chiude inesorabile. 

In questa cappa apocalittica ballardiana, abitata da spauracchi ctoni che diresti quasi Lovecraft, da presenze conturbanti alla fratelli Grimm e da mostriciattoli allucinati degni di Lewis Carroll, emerge quindi e con una certa veemenza un monito, ovvero l’anamnesi della malattia che sta ingorgando le vene della consapevolezza, di questa sconcertante amnesia del presente che fa seguito (per assurdo?) alla scomparsa del futuro. 

Tundra cominciò a elencare: “Vediamo cosa posso darti… I sassolini servono per non dimenticare; i denti di topo per le difficoltà; i fili per proteggere gi affetti; lo specchio per superare le apparenze; la rosa contro l’ira; la mappa per non perdermi, diamine! I fiammiferi per attrarre la luce; il panno verde per i desideri; i tappi per quando il troppo stroppia…”
“Ti stai inventando tutto”.
“E che differenza fa?”

La scrittura vegetale, minerale e fungina di Matteoni scava nel cuore dell’immaginario smarrito, sintetizzato, formattato. Gioca con le carabattole e gli scarti – abiti, scarpe, balocchi, lettori di cd… – e giocando rivela uno dei meccanismi profondi della malattia (pandemica), ovvero l’anestesia che ci fa convivere con (utilizzare le) cose estraniate e stranite dalla loro progressiva, ineluttabile obsolescenza, come se il valore d’uso ne masticasse incessantemente il senso, erodesse dall’interno la concretezza degli oggetti (dei manufatti), li astraesse per farli diventare carburante immateriale per poi abbandonarli alla loro materialità svuotata, svalutata, dis-animata. 

Un processo che investe – come non potrebbe? – anche la materia vivente nelle sue varie declinazioni, e quindi l’identità (il ragazzino “leprizzato”, l’uomo “lupizzato”…), e quindi la morte (la sua rimozione, a cui Talia si oppone prendendosi cura dei cadaverini degli animali).

Chi conosciamo davvero? Chi ci parla quando tutto è silenzio? Qualcosa, qualcuno, lontano, la chiamava, ma il nome che lei sentiva non era il suo.

Tundra e Peive è una parabola fantasmagorica e cruda, una lettura che provoca sano dissesto e inquietudini nutritive, una strategia di congiunzioni serpeggianti, gemmature inattese e vagare picaresco che prova a inceppare la linearità rapinosa e algoritmica delle connessioni. Riuscendoci, almeno per il tempo di un libro. Se vi pare poco.           

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