Il presente imploso: Grande nave che affonda di Andrea Cappuccini

Tutto in questo romanzo accade in absentia.

La vicenda inizia – una parentesi che si apre, una specie di eclisse emotiva – quando Taddeo viene incarcerato a Rebibbia: lascia dietro di sé una famiglia sconcertata, assieme a tutto il gruppo di amici che frequentano l’abitazione dei Romano nel quartiere di Torricella, periferia di Roma, una casa che somiglia a una piccola comunità, a “una strana festa diffusa e disperata”.

Da quel momento tutto pare come sospeso, il tempo e le coscienze si ripiegano su se stesse. I pensieri, le percezioni, i gesti scivolano in una dimensione paludosa, come se il groviglio di atti mancati, insoddisfazioni, vite lasciate a metà sull’inerzia del darsi reciproca consolazione, con l’uscita di scena di Taddeo fosse chiamato a sciogliersi, a trovare il bandolo di una soluzione.

Entrano così in scena ricordi, fantasmi, zone oscure di sé, il bisogno di dare corda ai desideri e forma alla direzione imboccata da vite irrisolte, in bilico, insabbiate nel territorio amorfo della periferia assediata dalla città con le sue leggi fuori scala.
Se Camillo e Viviana, genitori di Taddeo, devono vedersela con una mezza età ferita, spaesata, strattonata tra i ritmi e i riti della vecchia Torricella e una Roma che avanza con la risolutezza carnefice del suo codice metropolitano, e se Settimo e Patrizia – genitori di Viviana – vivono la loro estrazione popolare sempre più come il collasso di una dimensione al crepuscolo anzi ormai fuori corso, i veri protagonisti del romanzo sono la figlia minore Aurora – studentessa del liceo molto disincantata – e Diego, amico di Taddeo e di famiglia, pure lui alle prese con uno sconcerto che lo fa gravitare attorno ai Romano per una specie di inerzia senza scampo.

Entrambi agiscono come per conto di qualcuno o qualcosa che non c’è, si sentono dislocati, dissociati, cercano senso nella pancia di un tempo opaco che impedisce di vedersi padroni del proprio destino, a partire dal proprio corpo. Tra loro e la loro vita si allarga un diaframma di inettitudine, di inadeguatezza tanto profonda da diventare ossa, carne e pelle, per farsi bozzolo infine di pensieri che non sanno – non possono – padroneggiare.

“Cominciava a essere una ragazza e invece di sentire quella spinta, quella voglia di aggredire il futuro, sentiva solo che le cose non andavano e lei doveva cercare di far meglio, e che il corpo era probabilmente un qualcosa che, anche se si fa forte o bello, lentamente si disfa per conto suo”

Viviana regala ad Aurora il cofanetto di Twin Peaks, è uno sbaglio perché la figlia le aveva chiesto un’altra serie, ma si rivela un elemento cruciale: per la ragazza le vicende enigmatiche di Laura Palmer diverranno uno sprone e una chiave per scrutare il cuore del proprio disagio, per esplorare l’estensione della frattura. Diego invece tenterà di aggrapparsi all’università, ai lavoretti precari, all’amore per Antonella – altra amica di Taddeo e frequentatrice di casa Romano – che poi chissà se è davvero amore: tutti colpi sparati d’istinto ma un po’ alla cieca, per definire un perimetro, per saggiare il buio e stanare un nemico che neanche sai se esiste, se ha una forma, pure lui.

Col romanzo d’esordio Grande nave che affonda, il classe 1991 Andrea Cappuccini ha aperto l’otturatore su una suburra diversa dalle mostre delle atrocità divenute standard soprattutto per la forza pervasiva e persuasiva di cinema e serie TV. Anziché un precipitare brusco nel tramonto di tutti i valori, tra le fauci di un presente sempre più cinico e brutale, Cappuccini fa emergere la stasi di un tempo viscoso, l’inerzia di giorni svuotati di futuro, uno sprofondare lento ma vertiginoso nell’indeterminatezza, situazione che affiora soprattutto nella linea d’ombra tra metropoli e periferia, luogo ibrido e cicatriziale dove il gioco ipnotico della civiltà ad alto tasso tecnologico è già in corso ma non ancora a pieno regime, quindi più debole e inarticolato, anche se decentralizzazione e gentrificazione già macinano le particolarità e le distanze, togliendo senso al concetto stesso di periferico, non fosse perché lo propaga ovunque in un vasto progetto di decentralizzazione.

La nebbia che cala sull’inverno di Torricella – una nebbia naturale però misteriosa, fatale e indifferente, che offusca i sensi e ispessisce le distanze – è un palese espediente narrativo, tanto che sembra staccarsi dalla trama e vibrare sulla pelle della narrazione con intenti chiaramente simbolici: viene da pensare all’isolamento che abbiamo tutti sperimentato – chi più chi meno – con il lockdown, ma c’è come qualcosa di più profondo, che arriva da più lontano, che allude al bozzolo angosciante e al tempo stesso confortevole in cui ci stiamo rinchiudendo.

Vale anche per la “malattia del fulmine” che ossessiona Camillo, ingrediente che più di altri sposta il centro di gravità del romanzo dalle parti del realismo magico, tolta però ogni possibilità di conforto o redenzione favolistica: alla fine resta la presa di coscienza abbacinata di una commedia che si sgretola, di un motore che si ingolfa per il torpore dell’aria, di un tempo intrappolato tra sguardi che si rimpallano una consapevolezza sempre differita, soltanto intuita, eppure già così perturbante: il dover andare avanti comunque, un passo anzi un centimetro alla volta, nella direzione cieca del domani smarrito, esausto, imploso.

“Tutto sommato le cose quasi cominciavano ad andare. Poi magari era solo quella sensazione che si ha finita l’estate di essere riposati e voler ripartire, sensazione che alle volte neanche è legata alla realtà dei fatti ma che per abitudine, quel periodo dell’anno, ritorna e ti fa tirare avanti. Era comunque uno strano tirare avanti, uno strano andare, perché pareva che coinvolgesse solo marginalmente Torricella e chi la abitava. Alla fine lì a Torricella si era sempre come in sospeso, divisi, sparsi. Aveva a che fare con quel nonsoché che notava Camillo, con il fatto di vivere ai bordi di Roma e non essere davvero Roma, con quella sensazione dolceamara di tristezza che gli prendeva a Diego certe volte, con Settimo che ostinato si addentrava in un agire delirante e inevitabilmente solitario. Ma le cose pareva comunque andassero meglio.”

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