Sguardi incrociati: J.G. Ballard & Neil Young

«A poco a poco, l’isola si trasformava in un’esatta riproduzione della sua mente»

L’isola di cemento di J.G. Ballard uscì nel 1974, arrivò quindi poco dopo Crash (del 1973) e ne riverbera l’ossessione per la vulnerabilità del corpo rispetto alla sua “espansione” meccanica, l’automobile: è presente quindi il tema delle ferite come conseguenza neanche troppo collaterale del consegnarsi alla tecnologia, da considerarsi anzi un sottoprodotto – forse perfino auspicato o morbosamente ricercato – del progresso. Con Crash, appunto, e Condominio del 1975, L’isola di cemento costituisce la cosiddetta “Trilogia del cemento” o “Urban Disaster Trilogy”, nella quale lo scrittore inglese pose nel mirino il rapporto tra essere umano e panorama urbano/tecnologico contemporaneo.

La genialità di questo romanzo (abbastanza breve) sta nel rielaborare i temi del Robinson Crusoe alla luce di un nuovo paradigma. Defoe fa infatti naufragare il suo celebre personaggio nel 1659, quando cioè l’epoca delle nuove rotte mercantili e delle colonizzazioni stava ridefinendo l’idea stessa del mondo e di conseguenza dell’uomo nel mondo, sia come specie che come individuo, determinando una ristrutturazione profonda tanto degli schemi culturali che della dimensione spirituale. Per molti versi, Robinson Crusoe simboleggia l’uomo moderno sospeso tra globalizzazione e illuminismo, sul crinale cioè tra due ere che prevedevano una crisi culturale e spirituale senza ritorno.

Maitland, il “Crusoe” di Ballard, deve vedersela con una situazione simile anche se drasticamente mutata: fedele alla linea dello “spazio interno”, lo scrittore inglese individua un’isola intestina su cui far precipitare il suo protagonista, ovvero una porzione di territorio tra gli interstizi della geografia urbana dalla quale è però esclusa in quanto non funzionale, luogo non codificato, irraggiungibile se non per cause accidentali (un incidente stradale). Questa terra di nessuno ricavata in mezzo a tangenziali e sovrastata dai cavalcavia diventa una sorta di discarica (anzi, obbedendo a una strisciante simbologia organica*, un diverticolo) in cui si raccolgono scarti e residui del sistema economico/sociale, quello stesso di cui Maitland fa parte e nel quale anzi gioca un ruolo cruciale: è un architetto di fama, ha una moglie, un figlio, un’amante e una Jaguar che spinge a velocità eccessiva sulla strada finché uno pneumatico non lo tradisce, proiettandolo nel suo assurdo naufragio postmoderno.

L’imprevedibile isolamento e l’ambigua conflittualità con Proctor (un enigmatico e inquietante Venerdì) e Jane (controversa figura di giovane contestatrice del sistema, con un passato problematico e un presente dissoluto), allestiscono un contesto estremo nel quale i parametri emotivi subiscono sufficiente stress da mettere a nudo la loro stessa natura, logorando le intelaiature delle convenzioni, scuotendo lo scheletro portante della morale: tutto ciò sfocia in una ridefinizione di sé, una specie di contorta illuminazione che regalerà a Maitland uno sguardo ineducato, crudo, libero sulla realtà.

***

Al termine della lettura, per motivi che non so ben spiegare, mi è venuta in mente la copertina di On The Beach di Neil Young, album uscito – guarda un po’ la combinazione – in quello stesso 1974. La celebre spiaggia su cui si staglia la figura di spalle del cantautore canadese, con quella improbabilissima giacca gialla e le mani affossate nelle tasche dei pantaloni candidi, suggerisce un senso di profondo isolamento, quello di un uomo che ha bisogno soltanto di confrontarsi coi fantasmi che lo assediano, di inventarsi uno sguardo nuovo da rivolgere a un mare desolato (come doveva sembrargli in quel momento la realtà). La porzione di Cadillac che spunta dalla sabbia, così come le sedie e l’ombrello chiassosi e vagamente dozzinali (in linea con la giacca di Neil) nonché il quotidiano col riferimento al Watergate, fanno pensare a un luogo mentale, a una scenografia della memoria, o se preferite a una discarica (un diverticolo?) di informazioni, sogni e ricordi, dove gli elementi mnemonici vengono lasciati macerare nella prospettiva di una loro elaborazione, o – nel caso specifico – di una loro pacificazione.

All’epoca della scrittura e incisione di questo disco, Young stava infatti vivendo quella fase di profonda depressione che lo portò a concepire la celebre “Trilogia del dolore” (i tre album usciti tra il ’73 e il ’75: Time Fades Away, On The Beach e Tonight’s The Night), consumata – vedi un po’ la combinazione – negli stessi anni della “Trilogia del cemento” di Ballard. Per fortuna sua e di tutti noi, Young superò il difficile momento (come è evidente già nel meraviglioso Zuma del 1975), probabilmente anche grazie a quella sorta di “implosione” in se stesso, alla capacità di sottrarsi a convenzioni e aspettative (dopo il clamoroso successo di Harvest), all’isola in cui seppe atterrare per scoprirvi quello sguardo sulla realtà che lo avrebbe salvato.

Così lontani esteticamente e poeticamente, L’isola di cemento e On The Beach sembrano rispondere a un interrogativo simile che aleggiava in quello stesso 1974: il bisogno di uno sguardo capace di inquadrare il senso vero della realtà. Uno sguardo di cui abbiamo ancora bisogno.

*curiosamente, l’immagine in copertina della prima edizione Farrar, Straus and Giroux (che riporto sotto) vede Maitland intento a risalire la scarpata rappresentata come una sorta di vulva, quasi a far coincidere la fuga dall’isola con una simbolica rinascita

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