La dissolvenza della maschera: David Joy – Quelli che pensavamo di conoscere

Penso che abbiamo la pessima abitudine di credere che se non ne parliamo, le cose spariscono

Sostiene Wikipedia che a Sylva, nel North Carolina, abitino circa 2.500 anime. Mille in più di quante ne contasse nel 1960. Le stesse dall’ultimo importante incremento demografico, avvenuto nel 2000. Non c’è molto altro da dire, se non che per essere una località tanto piccola è stata la location di qualche film piuttosto celebre, tra cui Il fuggitivo con Harrison Ford (uno dei campioni d’incasso del 1993) e il più recente (2017) nonché bellissimo Tre manifesti a Ebbing, Missouri, con una formidabile Frances McDormand. Soprattutto la visione di quest’ultimo potrebbe aiutare a visualizzare spazi, colori, edifici, tempi, volti, sguardi, la dimensione insomma in cui si consuma la vicenda del nuovo romanzo di David Joy

Difficile, innanzitutto, individuare un solo protagonista. Il focus della narrazione è distribuito tra almeno cinque personaggi: lo sceriffo Coggins, sul punto di andare in pensione, la giovane Toya, artista nera di Atlanta, sua nonna Vess, l’agente Ernie e la detective Leah. Il libro si apre con uno stordente in medias res: Toya, spalleggiata da alcuni suoi compagni di studi, realizza un’opera d’arte destinata a turbare l’atmosfera inerte della cittadina, rievocando un vecchio sopruso compiuto ai danni della comunità nera. Non si accontenterà: con la performance successiva mette nel mirino la statua di rame dedicata ai soldati che hanno combattuto per la Confederazione, nella piazza del tribunale. A quel punto è troppo.

Si rompe l’equilibrio. Emergono dinamiche rimaste nascoste per anni sotto la pelle della normalità, di una normale, pacifica tolleranza tra la popolazione bianca e quella nera, fatta di espressioni e atteggiamenti che consolidano una gerarchia inconfessata, un codice di esclusione nell’apparentemente realizzata inclusione. Ernie nel frattempo si imbatte in uno strano caso, un balordo con strane protezioni e in possesso di un taccuino compromettente: altre crepe nel flusso opaco della norma.

L’oscurità affiora, le tensioni convergono, le relazioni si ridispongono in un quadro di colpo impazzito: è la normalità, appunto, che mostra il suo volto più sfuggente e violento nel tentativo di rammendare lo strappo. Finché non viene raggiunto il punto di fusione e il segreto esce allo scoperto, corrode i meccanismi, intride gli affetti, dissolve – lentamente – le maschere.  

Quelli che pensavamo di conoscere è un thriller che si allarga come petrolio sulla superficie di un lago torbido, esplora il peso specifico dei gesti, delle responsabilità culturali e politiche ad altezza d’uomo, facendo perno sul punto di attrito tra questione razziale e revisionismo storico, sul farsi carico, sulla densità della memoria. È come una nota mantenuta a lungo su un bordone dissonante. Una vibrazione che attraversa l’aria e i corpi mentre ciò che credevi solido perde consistenza, si sfalda come un monumento di cenere.

In realtà, forse è possibile individuare un protagonista principale: è la falsa convinzione di chi legge. D’essere a posto, convinto dell’armonia tra le proprie azioni e le proprie convinzioni. Di aver risolto tutto il risolvibile e risolto l’irrisolvibile sottoponendolo alla neutralizzazione della tolleranza. David Joy individua i termini della questione, ne riconosce l’impalpabilità, la sottigliezza capillare. Ma li colloca dentro di noi, nel profondo. Dove fanno male.     

Se uno voleva continuare a vivere da queste parti e non uscire di testa, doveva diventare indifferente. La storia di ogni luogo è una storia di dislocamento, e si dava il caso che lui stesse assistendo al volgere di una marea.

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