Il fantasma della prossimità: La zona d’interesse di Jonathan Glazer

Un film che scorre con leggerezza anomala, lasciando l’orrore fuoricampo, affidandolo alla componente invisibile e allusiva della colonna sonora, ovvero non alle musiche (quasi assenti, se non all’inizio, in coda e nell’intermezzo) ma agli effetti sonori, al rumore di fondo di un meccanismo che procede, opera, esegue (preme, compatta, schiaccia). E quindi ai lamenti, alle grida, al terrore e al dolore dei sommersi.

Questa sorta di espunzione visiva del male produce conseguenze su ciò che lo circonda, ovvero su ciò che la pellicola mostra e racconta, sembra cioè determinare uno svuotamento della normalità, come se le togliesse sostanza al di là (e a causa) del suo accadere meccanico, del suo compiersi con efficienza da termitaio. Eppure, questo raggiungimento flemmatico degli obiettivi (della “soluzione”), se da un lato si auto-sterilizza conferendosi un senso di adempimento anastetizzante, astraendo cioè il proprio agire nell’espletamento algoritmico di un dovere, dall’altro sembra essere consapevole della propria intima morbosità, dell’abiezione che metastatizza sotto la superficie di decoro e zelo, dell’obbedienza-agli-ordini.

Il comandante Rudolf Höß e famiglia sembrano insomma mettere in scena – a proprio uso e consumo e come fondamenta della visione politica del Reich – una forma di innocenza tanto codificata quanto fragile, sostenuta dall’impalcatura di un’illusione collettiva, sempre sul punto di lacerarsi e mostrare l’inganno, quasi come la Seahaven di The Truman Show (la realtà sterilizzata dall’orrore che si fa reality show?).

Non si può ambientare un film ad Auschwitz senza affrontare il tema di Auschwitz, eppure non direi che lo sterminio sia il tema centrale del film. Certo, la rappresentazione dello sterminio c’è, sia pure in background (anche il suono è rappresentazione). Dello sterminio si avverte la presenza come un rombo costante e soffocato, una presenza che affiora con la franchezza algebrica di un procedimento industriale (con tanto di assemblea dei soci), così come la “banalità del male” di ufficiali e civili è mostrata, ostentata, la vediamo all’opera mentre si nutre della contiguità perniciosa tra minuzie quotidiane (esplorate nei dettagli), pianificazione tecnica e volontà carnefice.

Tuttavia, mi pare chiaro che Glazer intende puntare il suo obiettivo da entomologo sul presente, sulla slogatura tra la nostra percezione di ciò che ci accade e di ciò che accade (intorno e nel frattempo), ovvero di ciò che accade oltre le quinte di quanto riteniamo lecito e convenzionale, mentre siamo impegnati a obbedire a quello che riteniamo essere nostro dovere minimo esistenziale, perdendo così la presa sulle conseguenze del nostro esistere, sul senso.

Il suono della carneficina, questo onnipresente rumore fuoricampo, può rinviare quindi alla “voce” della odierna devastazione ambientale, o a quella dei conflitti dimenticati, o più in generale al fantasma della prossimità e della reciprocità sacrificato quotidianamente sull’altare della condivisione (e dell’auto-rappresentazione). Quel suono sembra ricordarci (e rivelarci) che viviamo in stato di amnesia, che selezioniamo l’utile, il funzionale al “qui e ora”, ed escludiamo dall’obiettivo ciò che è correlato ma senza ricadute dirette, ciò che è implicato e conseguente ma non immediatamente computabile, ed è quindi non rappresentabile, destinato al fuoricampo, espunto perché osceno.

Le sequenze anomale, riprese con la telecamera termica in B/N, suggeriscono – forse un po’ didascalicamente – proprio l’alterità del calore, l’anomalia del residuo umano rispetto a tutto il resto, rispetto al meccanismo dominante. Altre scelte registiche segnanti sono la limpidezza slavata delle immagini, la loro asetticità naturale, quindi l’assenza di primi piani come a impedire vicinanza emotiva coi personaggi (e quindi a scavare sacche di non emotività dentro di loro), e ancora l’orizzonte alto che taglia la prospettiva sul campo – che rimane al di là della gittata dello sguardo – e riduce il treno a rumore e sbuffo di vapore dietro una cortina di vegetazione (indifferente e innocente).

Quanto alle interpretazioni, emerge una temperatura di recitazione volutamente bassa, una mancanza di vitalità coerente con il taglio narrativo, con le inquadrature, con la rimozione sorda della carneficina. Le posture, i gesti, gli abiti e i dialoghi sembrano seguire dei precetti igienici, come se volessero attenuare l’impurità – il male – attenuando l’umanità, obliterando l’etica con la cosmetica, la vessazione con una caricatura dell’autorevolezza, la disumanità con un decoro pernicioso.

Di Jonathan Glazer avevo apprezzato Under The Skin (quasi più del romanzo di Faber da cui era tratto) per la sua visionarietà disinnescata, per quella capacità di incastonare il perturbante in un quotidiano malevolo, insensibile, che pure finiva per accartocciarsi sul coagulo del male e quindi provocare consapevolezza, una specie di sensibilità. Questo La zona d’interesse – ispirato pare molto liberamente all’omonimo romanzo di Martin Amis (che non ho letto) – non colpisce con quella stessa forza, ma è come se sapesse di non poterlo fare, di dover scontare decenni di letteraura e immaginario sul tema dell’Olocausto e di Auschwitz in particolare.

Questo è forse il motivo per cui non ha l’aria di un capolavoro, neppure ha l’aria di volerlo essere. Al contrario, sembra perseguire una sorta di bassa intensità, sembra sfidarci – noi spettatori – su un piano liminare e minerale tra emozione e ragione. Così da colpirci, per così dire, in differita. E lasciare un’impronta postuma. Una ferita intellettuale.

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