She was alright: La campana di vetro di Sylvia Plath

“Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo”

Ci si deve preparare, per leggere un libro così. Alla durezza, certo. Perché è inutile fingere di non sapere: si sente il bisogno di leggerlo anche perché è cosa nota che ci porterà molto vicino ai motivi che hanno spinto l’autrice a suicidarsi. Neppure un mese dopo la pubblicazione (sotto pseudonimo) di questo romanzo – il primo e unico di una produzione che la vide autrice di alcuni racconti e soprattutto di molte formidabili poesie – Sylvia Plath infilerà la testa nel forno a gas e troverà ciò che cercava. Aveva trent’anni e due figli a cui poco prima aveva preparato la colazione, quindi li aveva chiusi nella loro cameretta, sigillando la porta con cura per non rischiare che il gas potesse raggiungerli. Non era la prima volta che tentava il suicidio.

Proprio il primo tentativo, compiuto quando aveva vent’anni, è al centro di La campana di vetro, ne rappresenta il cuore nero, il perno attorno a cui la vicenda ruota consegnandoci così un romanzo trifronte. Pur rispettando la natura letteraria dell’opera, quindi il suo essere fiction, impressiona constatare la corrispondenza con la biografia dell’autrice, che non a caso scelse di pubblicare sotto pseudonimo (Victoria Lucas), proprio per evitare che molte persone reali potessero riconoscersi nei personaggi. Va tenuto presente comunque che i fatti si riferiscono a qualche anno prima, cioè alla vita di Plath prima del matrimonio con Ted Hughes, prima dei figli, prima della sua affermazione come autrice, della crisi con Hughes, della separazione, del romanzo. Un romanzo che, visto da qui, finisce per rappresentare anche una lettera di commiato, tra le più circostanziate, esaustive e spietate che si possano concepire.

La prima parte mi ha sorpreso: Elizabeth Greenwood è una ragazza di Boston che si è aggiudicata una borsa di studio per uno stage nella redazione di una nota rivista a New York, di cui racconta in prima persona le dinamiche sociali e professionali, la trama delle relazioni predatorie, il codice elusivo ma pervadente che determina le prassi, le convenienze, i percorsi. Lo stile è distaccato, asciutto, però mai cinico, reso brillante (a tratti persino divertente) da una tensione sempre sul punto di deragliare, un’ansia di divenire, di appartenere a quel mondo di cui però Elizabeth avverte l’ostilità, come se i suoi sensi possedessero la chiave per decifrare la tensione omologante dietro ogni convenzione. Fin qui, sembra di avere a che fare con un romanzo di formazione e sconcerto in un periodo di cambiamenti epocali del sentire comune, vagamente in scia de Il giovane Holden (che Salinger pubblicò nel ‘51). Ma c’è una differenza importante. 

Quando Plath scrive il romanzo la cosiddetta “affluent society” si è ormai imposta, ispessendo gli ingranaggi culturali preposti a far girare il motore. Da cui un maschilismo intrinseco in ogni manifestazione di esistenza sociale, che sembra depositarsi su Elizabeth strato dopo strato fino a farne collassare la superficie e convincerla che tra lei e il mondo non esistono punti di contatto né margini di trattativa: in una delle pagine più belle e commoventi del libro, che di fatto ne chiude la prima parte, dopo un traumatico party dove quasi subisce uno stupro, la ragazza sale nel solarium dell’albergo, si sporge dalla terrazza e da lì getta tutti gli abiti usati nel periodo newyorkese, uno ad uno. È il suo addio alla Grande Mela e alla massa informe di sogni che l’avevano illusa.

“Un capo alla volta, affidai tutto il mio guardaroba al vento notturno, e sfarfallando, come le ceneri di un caro estinto, i brandelli grigi vennero trascinati via, per atterrare qua e là, dove esattamente non l’avrei mai saputo, nel cuore oscuro di New York”

È qui che Elizabeth dichiara la sua non appartenenza radicale. Il suo insopportabile, insostenibile isolamento.

Cos’è la “campana di vetro”? In un estremo spasmo di semplificazione, si potrebbe interpretare come la metafora della depressione (non che ci sia qualcosa di semplice, nella depressione). Ma il bisturi della Plath va più a fondo, allude a un male oscuro ben più vasto, diffuso e – soprattutto – integrato. L’immagine stessa della campana di vetro, la sua leggerezza e invisibilità, è equivoca: non c’è nulla di oscuro in una campana di vetro, non è un’immagine inquietante oppure oppressiva. È un perimetro impalpabile, una capsula che stabilisce una dimensione, un ordine di valori, un vocabolario emotivo. E riguarda tutti: è la formula che è stata apparecchiata in funzione di chi siamo, il bozzolo nel quale si compie la nostra metamorfosi in cittadini.  

“Mia madre mi continuava a ripetere che nessuno cerca laureate in lettere e basta. Invece una laureata in lettere che sapesse stenografare era un altro discorso. Sarebbe stata richiestissima, per esempio dai giovani dirigenti ambiziosi, i quali le avrebbero dato da trascrivere lettere su lettere, una più esaltate dell’altra. Il guaio era che io detestavo l’idea di mettermi al servizio degli uomini. Volevo essere io a dettare lettere esaltanti”

La parte centrale dedicata alla discesa lenta ma inesorabile nel plateau della depressione introduce un netto cambio di tono, l’ironia si accartoccia fino a diventare una chiosa laconica che stringe il petto: impossibile non chiedersi cosa abbia rappresentato per la Plath scrivere queste pagine. Si tratta di uno di quei casi in cui la membrana che separa la biografia dall’opera si sfilaccia (ne abbiamo parlato ad esempio a proposito dei dischi finali di David Bowie e Leonard Cohen), ma nel caso specifico si strappa, fatta a pezzi da quello che sembra un esito fin troppo conseguente del percorso espressivo, ad esso organico, per molti versi necessario

Certo, imprigionare questo libro in una lettura del genere significa fargli un torto, perché è valido di per sé appunto come critica alla struttura culturale dell’occidente, alla sua capacità di riarticolarsi nella modernità senza un reale processo di confronto rispetto all’evoluzione di quei valori in cui sostiene di credere. Nei quasi sessant’anni passati dalla sua pubblicazione, quanto del maschilismo – sia esplicito che strisciante – di cui sono intrise le pagine di La campana di vetro è stato disinnescato? E cosa ne è stato del progetto di una società più umana, della ricerca della felicità? 

La terza parte del romanzo è dedicata alla “guarigione” di Elizabeth, al suo lento riemergere, al suo riconsegnarsi a quel po’ di se stessa. La pratica dell’elettroshock, che in effetti le gioverà, è in questo senso simbolica: sembra cioè alludere a un processo di produzione dell’individuo sano, di “reset” del sistema e successiva riconfigurazione allo scopo di neutralizzare i processi emotivi intrusi, gli eccessi, le esondazioni. Se la ragazza recupera equilibrio e in parte la fame di esperienze (è ossessionata dal bisogno di perdere la verginità, ma come per lasciarsi alle spalle un marchio, la soggezione nei confronti di un rituale), non perde però lo sguardo che le consente di vedere attraverso la superficie dell’autorevolezza, dietro la maschera accogliente della convenienza. Il finale – che evito qui di svelare – allude esattamente a questo. Si tratta, tecnicamente parlando, di un finale aperto, anche se di fronte a Elizabeth sembra allungarsi solo un corridoio sterile e apatico. Un percorso obbligato. Un progetto.

P.S.

In una canzone dedicata a due grandi autrici, entrambe suicide, come Virginia Woolf e – appunto – Sylvia Plath, Robyn Hitchcock con queste semplici parole coglie in pieno il centro della questione:

Sylvia Plath saw the world as it is

Sylvia Plath saw it wasn’t no business of hers

She was alright

4 commenti

  1. Una delle mie letture preferite. Poi, trovo sempre interessante a come si arriva a certi libri. In questo caso il tramite fu Superunknown (a quanto pare i versi di Sylvia Plath ispirarono Chris Cornell): sembra un libro cupo e sofferto (ed in effetti lo è), ma è anche impregnato di una vitalità a cui vorrebbe davvero ambire. L’immagine della campana di vetro ne descrive l’ambivalenza. Come del resto in Superunknown: sono due meravigliosi esempi di quanto sia sottile (e labile) il confine tra vita e morte. Come sempre, ottima analisi.

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