Notte senza fine: Il Mostro di Alessandro Ceccherini

Se la vicenda del Mostro di Firenze per anni ha terrorizzato/affascinato tutto il Belpaese e oltre, per chi è cresciuto in quel territorio lì si è trattato di qualcosa di più e di diverso: la quotidianità cambiata di segno, una ricodifica del rapporto coi luoghi di appartenenza, la sensazione di muoversi in una gabbia abitata da minacce invisibili, imprevedibili anzi decisamente probabili. Per la cronaca, sì: abitavo e abito tuttora a pochi chilometri da quelle strade, da quei boschi, dagli scenari in cui si sono consumati gli otto (tristemente) celebri delitti.

All’epoca tutti noi, ragazzi e ragazzini, ne venimmo investiti. Muoversi la sera, fuori dal cono di luce dei centri abitati, significava sfidare la preoccupazione sempre più vischiosa dei familiari, che malgrado la spensieratezza e la spavalderia dell’età divenne anche nostra: ci avvolgeva, la respiravamo. Ricordo bene quella strana sensazione, da assediati senza assediante, perché lui, il Mostro, non lo immaginavamo come individuo, come persona, come corpo: era più una patologia della normalità, un sintomo del mondo. Era il fuori di noi in agguato, nel buio alla periferia del mondo vivo e attivo, presenza intrisa di una cattiveria smisurata perché senza scopo, e perciò ingiustificabile, indecifrabile. Non era questione di mistero: c’era semmai in quei delitti, strisciante, il marchio di un’insensatezza ricercata, profonda. Lo scassinamento della catena di ragione, raziocinio, emozioni e sentimento. E il conseguente addensarsi di una nebbia fredda e persistente di timore, spremuto dal nocciolo di paura annidato come una ciste nella carne.

La successiva ricomposizione della vicenda in senso giudiziario, ovvero il processo a Pacciani e “compagni di merende”, non riuscì a renderla davvero comprensibile. Tutt’altro: sembrò una caricatura grottesca del raziocinio, della giustizia, della realtà. Della narrazione della realtà. Tutto terreno fertile perché le teorie cospirazioniste e complottiste – con lo spettro inevitabile della massoneria a infestare il tutto – sbocciassero vigorose e intricate. Intendiamoci: Pacciani era mostruoso, ovvero un campione di quella mostruosità che germoglia ai margini, dove superstizione, ignoranza e vizio impastano un codice di convivenza sociale avariato, talvolta patologico, spesso violento. Ma evidentemente non era IL Mostro. Non poteva esserlo. Non lo era perché nulla di lui lo rendeva credibile come artefice di atti criminali così atroci e raffinati, così freddamente pianificati. 

La necessità di chiudere un capitolo tanto drammatico spingeva l’immaginario collettivo – pasturato abbondantemente dai media – a sovrapporre alla figura eccessiva e sgraziata di Pacciani quella di un serial killer sfuggente e letale: impresa impossibile. Che infatti fallì, anche se comunque andò a segno. Il risultato fu una specie di limbo quantico: ogni dettaglio di quella storia possedeva almeno due facce, e nell’insieme costituiva un budello vertiginoso di sfaccettature. Ogni tentativo di interpretazione lasciava aperti spiragli beffardi sulla possibilità di accartocciarsi e rovesciarsi nel suo contrario.

Terminata la raccapricciante catena di omicidi, il Mostro si ritirò in un tana inaccessibile, la paura è diventata giorno dopo giorno memoria, la maschera notturna minacciosa si è via via inabissata sul volto accogliente del territorio, fino quasi a svanire. Pacciani si è portato nella tomba una parte consistente di mistero, e tutto sembra essersi ricomposto. Ma quel racconto non si è mai davvero concluso.

Alessandro Ceccherini è nato nel 1985, l’anno cioè – sarà un caso? – dell’ultimo delitto del Mostro. Ha appena calato l’asso del romanzo d’esordio, 500 pagine di fiction innestata proprio sulla vicenda labirintica e oscura del presunto serial killer che colpì per otto volte nei dintorni del capoluogo toscano. Intitolarlo Il Mostro può sembrare scontato, ma come poteva essere altrimenti? 

Ceccherini non ha mancato di ringraziare i cosiddetti “mostrologi”, appassionati/ossessionati che da anni raccolgono la mole scompaginata e magmatica di dati con lo scopo di dare loro ordine e casomai provare a unire i puntini: così facendo, si è posto al di fuori di questa peculiare categoria, di cui tuttavia potrebbe fare legittimamente parte, considerata la cura e l’aderenza al dettaglio del romanzo, che segue i fatti con capitoli brevi spediti sulle tracce dei molti protagonisti (realmente esistiti o di fantasia), atterrando nei luoghi che hanno costituito la matrice e gli scenari degli omicidi. La vicende procede con una pulsazione sincopata che prevede scarti temporali anche di mesi o anni, con conseguenti ellissi narrative che ispessiscono il senso di vertigine e disorientamento, di frantumazione dello specchio e impazzimento del riflesso, almeno per chi si trovava a interrogarsi sui motivi – aveva senso chiamarli moventi? – a partire dalla nuda e cruda ricostruzione dei delitti.

Pagina dopo pagina, il romanzo compone un puzzle che fornisce all’ipotesi della “pista nera” un corpo tanto plausibile quanto complesso, radicato sul terreno scivoloso delle regie occulte, dove i disegni del potere obbediscono a linee di forza imperscrutabili fino all’astrazione, in un vasto (cioè nazionale e internazionale) progetto di destabilizzazione che una volta compiuto il giro delle atrocità vorrebbe favorire – neppure troppo paradossalmente – una limacciosa stabilizzazione. La paura quindi come dispositivo di controllo, come palude che impantana movimenti e intenzioni. La paura come fondamento e garante

A tal proposito, l’ineffabile Jack, il misterioso Americano, sostiene che “le bombe arrivano sempre dall’alto (…), un serial killer arriva da giù. Da dentro”, alludendo con ciò alle possibilità di un nemico interno – anzi: interiore – quale vera e propria arma di dissuasione, un buco nero che s’ingoia lo spirito critico e i fermenti politici fin dal (prima del) loro nascere. 

Le dinamiche degli omicidi vengono descritti nella loro cruda meccanica, quasi a trasmettere il senso di una produzione di corpi de-vitalizzati, trasformati cioè in segni, metafore, nella calligrafia esoterica dell’inquietudine. I gesti freddi, tenaci, metodici degli assassini mentre tolgono la vita, sono raccapriccianti in sé ma non tanto per la loro violenza, per il dolore e il danno (letale) che arrecano, piuttosto per come si disinteressano della vita, per come considerano la vita un intruso da neutralizzare, un puro e semplice ostacolo nella costruzione di un discorso simbolico il cui vocabolario è composto di spoglie umane.  

Infatti, “Il potere in ogni sua forma serve prima di tutto e da sempre al dominio sui corpi”: ed è qui che la strategia s’incaglia: le finalità “persuasive” dei delitti vengono intercettate e dirottate in un disegno diverso, quindi trasformate in una prassi di dominio e prevaricazione, di superstizione e violenza. I cosiddetti servizi “deviati” subiscono per così dire una deviazione ulteriore, una ramificazione che forza il perimetro del controllo e infine lo oltrepassa. Fino a collassare.

Alessandro Ceccherini

In questa trama che s’intreccia e stratifica sotto a quella già contorta, atroce e tragicomica riportata dalle cronache, i personaggi si delineano con forza terrigna e luciferina, anche grazie al bel lavoro sul linguaggio, col ricorso sistematico al dialetto nel caso di Pacciani (le cui esternazioni sovraccariche e grossolane si leggono inevitabilmente con la sua voce), della sua signora (la niente affatto marginale Angiolina) e dei compagni di merende, mentre gli appartenenti alla – come dire – classe dominante scolpiscono invece i dialoghi con padronanza agghiacciante, concedendosi sottigliezze poetico/filosofiche mentre pianificano di scannare persone innocenti.

Non c’è margine per la giustizia: da una parte stanno i capri espiatori, bocconi grassi conditi di brutalità balorda e serviti con generosità al grande pubblico, il quale ne esce affabulato, in parte convinto ma – lascito calcolatissimo – col dubbio dell’incongruo, dello sfasamento dei conti che non tornano; dall’altro lato, nella notte che sembra non finire mai, stanno i mostri reali, figure che cogli nella periferia dello sguardo, corpi/fortezze inespugnabili, inafferrabili, traiettorie di potere puro, alimentato da una feroce, ambiziosa, inesauribile insoddisfazione. 

Resta forse, come scoria sul fondo dopo lungo ribollire, un barlume di speranza, una vena combattiva tenuta in vita più da una specie d’inerzia che non dalla volontà: è una febbre di groviglio risolto, un’ossessione annidata nelle ossa che condanna a cercare, a scalzare le maschere, a calcolarsi dentro il perimetro, nelle forme, nello sguardo del mostro. “Se il male esiste, il compito principale del bene è soprattutto conoscerlo”, già: tuttavia la fame di verità finisce per somigliare a una condanna, alla deliziosa, ipnotica impotenza dello spettatore/voyeur.  

Il Mostro è un romanzo potente, affilato, lucido, ventrale, visionario, persino spavaldo nel suo avventarsi sul corpo poroso della Storia, che scorre a frammenti, a strappi, a vampe come un paesaggio dietro al finestrino, non senza momenti di attrito sconcertante e intuizioni audaci (vedi su tutte l’ipotesi sulla morte di Rino Gaetano). Ceccherini si dimostra in possesso di un bel mix di padronanza e (stra)visione che non può non rimandare a modelli autorevoli come il DeLillo di Libra e Underworld, oppure – per rimanere alle nostre latitudini – al Genna dell’ottimo Dies Irae. E – doveroso ribadirlo – stiamo parlando di un esordio: va da sé che l’autore è di quelli da tenere d’occhio.

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