Tutte le versioni: These Days e le cover come tentativo

Amo These Days perché è una di quelle canzoni che significano molto pur senza significare niente di preciso. A pensarci bene, si potrebbe affermare anche il contrario: These Days ha un senso ben circoscritto, eppure sfugge alla presa, si rifugia nella nebbia di frasi e suoni in bilico, nell’ombra delle emozioni di cui il protagonista/interprete è, come dire, pervaso. È uno di quei casi insomma in cui il solco tra ascoltare e tentare di spiegare ciò che si sente ascoltando si rivela particolarmente ampio.     

Narra la leggenda – che peraltro trova molte conferme nelle notizie biografiche – che These Days sia stata composta da un giovanissimo Jackson Browne nel 1964 o nel 1965. Browne, classe 1948, è uno di quei cantautori folgorati sulla strada per il Greenwich Village dopo un breve trascorso nei californiani Nitty Gritty Dirt Band (correva il fatidico 1966). Troppo giovane Jackson in quei primissimi 60s per cavalcare l’onda spumeggiante del folk revival –  che vedeva primeggiare gente tipo Fred Neil, Eric Andersen, Phil Ochs, Bob Dylan (of course) e via discorrendo – ma evidentemente già ben sintonizzato su quelle stesse frequenze se a soli 16 (o 17) anni fu in grado di mettere la firma su una canzone come These Days (e altre di pari livello). L’album d’esordio di Browne sarebbe arrivato solo nel 1972, ma intanto, come dire, bazzicava l’ambiente. E non solo: strinse una relazione con Nico, fresca musa di Warhol e ingrediente stupendamente alieno dei primi Velvet Underground.

Curiosità: Browne è nato il 9 ottobre del 1948 in Germania, per la precisione a Heidelberg, 250 chilometri a sud-est di Colonia. In quest’ultima città era venuta al mondo – il 16 ottobre del 1938, vale a dire dieci anni prima quasi esatti – Christa Päffgen, futura Nico. Cosa c’entra? Nulla. O invece, forse, qualcosa. Chissà. In ogni caso, nella New York del “decennio veloce” i due si incontrano, si amano per un po’, se la intendono anche artisticamente, al punto che ben tre canzoni firmate dal neanche ventenne Jackson finiscono in Chelsea Girl, album d’esordio come solista della modella, attrice e fascinosissima chanteuse tedesca. 

Di Chelsea Girl, beh, cosa dire: bello, bello, bello. E come non poteva esserlo visti i nomi coinvolti? Per metà è un album velvettiano/warholiano, nel senso che in cinque delle dieci tracce troviamo tra i compositori Lou Reed, John Cale e Sterling Morrison, ovvero tre quarti dei Velvet. A questa componente di derivazione Factory vanno aggiunti i contributi di Tim Hardin, Bob Dylan e, appunto, Jackson Browne, per una tracklist che definisce la Nico interprete in maniera già compiuta, anche se lontana – perché più canonica e persino naïf – dalla vestale algida e dark degli anni successivi. Comunque sia, già nel ‘67 la sua voce suona come scolpita in una distanza sierosa, sembra alludere a un dissidio profondo tra la rigidità esteriore – che qualcosa deve alla dizione marmorea di ascendenza teutonica – e una fragilità esistenziale le cui radici affondano in un’angoscia recondita e, probabilmente, cosmica. 

C’è qualcosa nella voce di Nico che non è facile da dire (siamo sempre nel solco tra ascoltare e tentare di spiegare ciò che si sente cui accennavo sopra), e che in These Days trova una collocazione – forse sarebbe meglio dire: un’ambientazione – perfetta.

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Se ci si limita a leggere i versi, può passare per una delle tante canzoni dedicate a un topos adolescenziale per eccellenza, il disorientamento di chi si sporge sulla complessità dell’esistenza e si ritrova così a camminare, acerbo e irrequieto, sulla linea d’ombra tra apprensione e spleen. 

I don’t do too much talking these days
These days
These days I seem to think a lot
About the things that I forgot to do
And all the times I had
A chance to

Ma questi turbamenti giovanili vengono risucchiati nella scia dell’incedere austero e stranamente delicato di Nico, diventando così qualcos’altro. Si smarcano dai perimetri generazionali e in un certo senso si assolutizzano, diventano vere e proprie categorie dell’anima. Non stupisce se poi nel 2001 te li ritrovi ad accompagnare una delle scene più struggenti (per quanto e come possa apparire struggente una scena nel codice cinematografico di Wes Anderson) di The Royal Tennenbaum

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E neppure stupisce che nel corso del tempo These Days sia stata oggetto di molte interpretazioni. A parte la versione del suo autore contenuta in For Everyman del 1973 – immortalata in una dimensione indolenzita e già assai nostalgica -, una delle più famose è senz’altro quella di Gregg Allman (sempre del 1973), che scava nel ventre luminoso del country rock, non privo di umori southern, per accartocciarsi in una malinconia incandescente (il fratello Duane e il compagno di band Berry Oakley erano morti tragicamente poco tempo prima). Una formula di grande impatto, non c’è che dire, che tuttavia lascia affiorare una certa quota di autocompiacimento, inevitabilmente stonata rispetto alle potenzialità messe a fuoco (o ibernate) dall’interpretazione di Nico. 

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Difettuccio questo che Miley Cyrus riproporrà – amplificandolo – in un’esibizione del 2021: da brava figlia di papà Billy Ray, fa ampio ricorso alla cassetta degli attrezzi del country rock, il più solido e patinato che si possa concepire (con buona pace dell’aura plasticamente trasgressiva della ex-Hannah Montana), per confezionare una performance per molti versi impeccabile, ovvero molto più professionale che intensa. Ben fatto Miley, però perdonami: no, non ci siamo.         

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Al contrario, negli anni alcune versioni di These Days mi sono sembrate particolarmente a fuoco nella misura in cui sembravano impegnarsi a strappare un altro pezzetto di buccia alla sua anima furtiva. Quella degli Everything But The Girl, ad esempio, in cui la solennità pastosa e malinconica di Tracey Thorn riesce a cambiare di segno all’inquietudine senza stravolgerla. 

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Niente male anche quella firmata Paul Westerberg, di nuovo e pur sempre una cavalcata country rock ma col lato rugginoso della carrozzeria in bella mostra, quindi col cuore che rantola e le luci del crepuscolo appena dietro l’angolo. 

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Infine, trovo perlomeno ispirata quella di St. Vincent, che a dire il vero sembra pagare un certo timore reverenziale per le atmosfere e le movenze di Nico, ma un attimo prima che possa suonare come un tributo tra i tanti la cara Annie Clark introduce una spruzzata di tremori abbacinati che cambiano la temperatura e le coordinate, teletrasportandosi in una ammaliante scenografia post-moderna. 

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Poi, anno 2022, arriva Chan Marshall, dai più conosciuta come Cat Power. Il suo album numero undici, il terzo di sole cover dopo The Covers Record (2000) e Jukebox (2008), si intitola Covers – ok, per quanto riguarda il titolo non si è sforzata granché – e propone una scaletta a base di pezzi firmati Nick Cave, Iggy Pop, Frank Ocean, Shane McGowan, Lana Del Rey e Bob Seger tra gli altri. In mezzo a questo bendiddio, presumo che lo abbiate capito, Chan ha deciso di mettere pure These Days

Quella di Cat Power non è solo una buona versione: fa pensare a un approdo, al chiudersi di una parabola la cui origine va fatta risalire al 1967, per la precisione nella primavera di quell’anno, quando avvennero le incisioni per Chelsea Girl. Ascoltatela: 

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Pochissimi ingredienti: l’arpeggio di elettrica e Chan con la sua voce-palpebra, una voce che raccoglie i rottami di dolcezze e amarezze, una voce che è un po’ il fantasma di se stessa ma è pur sempre il corpo che cocciutamente vive, malgrado tutto. Notevole anche l’apparizione di quel controcanto aereo, come lo spiffero di un’anima di scorta, la folata luminosa di un punto di vista ulteriore, che nella pennellata soul indolenzita riesce a impastare una sfumatura di sollievo. Per cosa? Si torna alla parte difficile della faccenda, al solco tra ascoltare e spiegare. Ok, mi assumo la responsabilità e azzardo una risposta: per esserci ancora. Per la consapevolezza di avere averci tanto provato, per la voglia di continuare a provare. 

Se Nico dirigeva il suo sguardo oltre il tempo così da poter tracciare una sagoma austera nel flusso luminoso delle aspettative, come se volesse individuare il cuore di ghiaccio che sta al centro anche delle trepidazioni più calde, per stendere un velo di angoscia sulle dinamiche profonde di sentimenti ed emozioni, Cat Power fa invece un bilancio, mette su un piatto il disincanto e sull’altro ciò che resta delle speranze, anzi della possibilità stessa di sperare. Chan si volta indietro e coglie da un passato non certo facile, non certo docile, i motivi inspiegabili e inspiegati che la spingono a tenere duro, a giocarsi ancora (e ancora, e ancora) l’anima. Il che per lei significa in qualche modo mettere a nudo – non è certo la prima volta che accade – la propria stessa natura, da sempre in bilico tra crollo e determinazione, tra fragilità e forza.    

In tutto questo, mi è venuto da chiedermi: esiste una versione definitiva di These Days? Qualcuno potrebbe sostenere che sia quella originale: ma quale sarebbe l’originale? La combinazione di note e parole che un Jackson Browne in stato di grazia seppe cogliere nell’aria dei 60s? Oppure la prima a finire su disco? La risposta più accettabile, a mio parere, è che These Days sia tutte le versioni di These Days, e che in ragione di ciò nessuna interpretazione può pretendere di essere quella definitiva. 

Stiamo parlando di una canzone straordinaria, certo, ma se quanto appena detto valesse in qualche misura per tutte le canzoni? Se ogni canzone dovesse fare i conti con la propria fisiologica incompletezza nella prospettiva del tempo? In questo senso le cover – anche le meno riuscite – potrebbero essere il tentativo più o meno consapevole di rimediare a questa incompletezza, di contribuire al processo di definizione progressiva – e probabilmente inesauribile – di una canzone.    

Spesso di fronte alle cover ci mettiamo sulla difensiva, le affrontiamo con diffidenza e reagiamo con ostilità, non di rado immotivata. È comprensibile: in gioco ci sono le nostre predilezioni, i nostri ricordi, gli intrecci emotivi più profondi. Ma dovremmo considerare una cover per quello che è: un tentativo. Talvolta sorprendente e quasi sempre – nel bene e nel male – rivelatore.

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