Tra innocenza e oscurità: Snakehunter di Chuck Kinder

Chuck Kinder ha lasciato questa terra nel 2019. Autore di appena quattro romanzi, amico (e in parte rivale) di Raymond Carver, mentore di Richard Ford, ispiratore del personaggio principale di Wonder Boys (romanzo di Michael Chabon portato adattato per il cinema da Curtis Hanson nel 2000, attore protagonista Michael Douglas). Detto questo, Kinder non ha mai raggiunto la notorietà che avrebbe meritato, tanto che ha continuato a insegnare scrittura creativa fino al 2014. Da noi, per dire, il romanzo d’esordio non era mai stato pubblicato, e francamente si fatica a capire il motivo. Perché Snakehunter, uscito in USA nel 1973 (Kinder aveva trentuno anni), è un gran romanzo, decisamente maturo tanto dal punto di vista del linguaggio che della struttura. Lascia di stucco pensare che stiamo parlando di un esordio. 

Speer Whitfield, il protagonista e io narrante, racconta episodi della sua vita pescando soprattutto dal finire degli anni ‘40, il tempo della sua infanzia, quando dopo la morte del padre – caduto in guerra – si trasferisce con la madre e la sorella a casa della zia, a Century, in West Virginia. Ricordo dopo ricordo, tassello dopo tassello, si compone una vicenda spietata, tragicomica, pervasa di morte e soprusi, con la famiglia Whitfield a mettere in scena un campionario umano singolare, nel quale ogni individuo è un impasto irripetibile di conformismo e bizzarria, durezza e generosità. 

Vedi la zia Erica, il suo bigottismo e la sua ossessione/missione di fornire una lapide a ogni caro estinto della famiglia, oppure Clint – il nonno di Speer – destinatario di un amore profondo malgrado il nipote ne conosca i crimini compiuti in passato, o ancora e soprattutto la cugina Christine, quasi quarantenne, nubile, laureata in lettere, portatrice insana di romanticismo magico, a tratti morboso, come un conflitto irrisolto (irrisolvibile) tra chi sente di essere e chi avrebbe dovuto essere.

I ricordi di Speer procedono senza un ordine cronologico, con un’impostazione rapsodica che diventa il senso stesso della storia, perché ogni episodio, ogni ricordo, significa in relazione a tutto il resto, come se il passato fosse adesso nella memoria. 

“So per esperienza personale che il passato è l’unica realtà veramente controllabile. Inoltre, so per esperienza personale che ho delle responsabilità verso me stesso che iniziano con i miei ricordi.”

Il che conduce al tema cruciale, quello della morte come presenza immanente, divoratrice di senso eppure (oppure) l’unico senso possibile: dal punto di vista di Speer la famiglia Whitfield appare come intrappolata in un cul-de-sac, come del resto egli stesso. La morte soffoca ogni prospettiva. È implicita nel vivere. Fa parte della sorella Cynthia, del cancro della sua pelle. Ne è intriso l’abbandono malinconico dello zio Charles, così come la crudeltà infantile del cugino Henry. Sarà la controparte dell’amore quando uno Speer ormai studente universitario raccoglierà i frutti intossicati dell’infanzia, arrivando a dire alla sua ragazza Mary, incinta:  

“Ti sbagli sul fatto che sia vivo (…). È solo un grumo umido e scuro che ti morde le viscere. Non è una persona. Solo un dannato grumo. Non ci riconosceresti nulla di umano. Ti sembrerebbe un pesce o uno sterco.”

Sono i primi anni di vita che hanno educato Speer a una vertiginosa intimità con la morte, tanto che per lui sembra l’unico codice possibile per raccontare l’esistenza. Tanto da concedersi tra un ricordo e l’altro excursus antropologici su pratiche di uccisioni in popoli antichi e contemporanei, come se lo Speer adulto volesse dare senso e sostanza alla propria ossessione ricorrendo a precedenti storici e culturali che in qualche modo la giustifichino. Lo stesso scorcio di società rurale statunitense del secondo dopoguerra che emerge dal romanzo sembra intrappolato in un incubo antico, infestato dagli stessi fantasmi raccontati da Faulkner, Caldwell e Steinbeck nei romanzi della Grande Depressione, così come da un riaffiorare di demoni dell’American Gothic Fiction nati dall’attrito tra la modernità e le leggi selvagge della frontiera. 

Gli anni Cinquanta, quelli della “affluent society”, porteranno paradigmi nuovi e scintillanti, una colata di benessere idealizzato che faticherà a imporsi fuori dalla dimensione metropolitana ma costituirà comunque uno standard a cui ambire. Tuttavia, sembra dirci Kinder, quei fantasmi e quei demoni rimangono vivi, in attesa della crepa da cui sciamare. Sono parte della natura di una società che ancora oggi, nella sua rincorsa di un futuro luminoso, deve fare continuamente i conti con l’oscurità:    

“L’oscurità è una realtà che mi cambia o ci morirei. Non posso modellarla. Posso solo stare lì e sottomettermi, farmi contenere. Posso solo tentare di scegliere da dove entrare, il mio angolo di pendenza, il mio grado di penetrazione, la mia precisione di movimento: un movimento che prenderà alla fine una forma, una dimensione propria. L’oscurità è uno strano tappeto erboso.”

Snakehunter è un romanzo di formazione poetico, inquietante, duro. Le vicende dei bambini – indimenticabile il rito di iniziazione a cui deve sottoporsi Speer – possiedono l’anarchia selvatica di Mark Twain e l’asciutta crudeltà di Cormac McCarthy: riferimenti che sembrano tracciare una parabola, quasi l’allusione a una perdita dell’innocenza. Forse però non di innocenza si tratta, ma del frutto acerbo di una colpa atavica, impossibile da estinguere, come del resto testimonia tanta letteratura statunitense contemporanea.

P.S. La traduzione è di Nicola Manuppelli, che per Jimenez ha pubblicato Domani è un posto enorme, un memoir dedicato appunto a Chuck Kinder, col quale aveva stretto amicizia nel 2008.

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