La rivolta e la solitudine: Dimmi da quando è partito il treno di James Baldwin

Qualche mese fa mi sono messo in testa di leggere James Baldwin. Sentivo che non potevo più rimandare. Dei suoi romanzi si trova agilmente il più celebre, La stanza di Giovanni, mentre con gli altri le operazioni di ristampa sono state, diciamo così, più discontinue. In ogni caso, dove non si trova il nuovo viene in soccorso una ancora generosa offerta di usato (consideratela una comunicazione di servizio). 

Oltre alla livida intensità del già citato La stanza di Giovanni (1956), nel quale il tema dell’identità sessuale – e del conseguente disorientamento esistenziale – è affrontato con una potente seppure elusiva franchezza (va tenuto conto che si era ancora nel mezzo dei 50s), sono rimasto colpito dalla forza del romanzo d’esordio Gridalo forte (1953), parzialmente autobiografico, nel quale l’identità dell’afroamericano immerso nel brodo tossico dell’ostilità culturale e sociale statunitense sembra sfaldarsi, soffocare, per riorganizzarsi in un simulacro d’identità, inevitabilmente vicina – sempre più vicina – al punto di rottura. Due temi – discriminazione razziale e omofobia – che tornano nel terzo lavoro Un altro mondo (1962), ma che nel romanzo successivo azzeccano un diapason formidabile. Fin dalle prime righe infatti Dimmi da quando è partito il treno (1968) mi è sembrato emanare la densità e il respiro del capolavoro. 

Il protagonista e io narrante è Leo Proudhammer, attore teatrale e cinematografico talentuoso, piuttosto celebre, nero, bisessuale. Giunto alla soglia dei quarant’anni, ha un malore in scena. Collassa. Si tratta probabilmente di un infarto, anche se non viene mai specificato. In ogni caso, sopravvive. Ne esce ovviamente stravolto, indebolito. È come se la vita gli si fosse increspata davanti, spingendolo a riconsiderare tutto il percorso compiuto fin lì. Durante la degenza in ospedale e la successiva convalescenza, Leo ricorda, trascina il lettore in flashback densi su fasi cruciali della sua esistenza, dall’infanzia ad Harlem durante il secondo conflitto mondiale ai tentativi di dare forma e sostanza al talento per la recitazione, scontrandosi con le difficoltà tipiche di un giovane spiantato – pochi mezzi, lavori saltuari, difficoltà a emergere: la tipica situazione bohémienne insomma – che però presto o tardi il colore della pelle trasfigura in qualcosa di diverso, di mostruoso e invalidante dal punto di vista psicologico e sociale. 

Questo sprofondare e poi riemergere nella/dalla memoria – una modalità che ricorda quella utilizzata da Sergio Leone in C’era una volta in America – avvolge il lettore in una dimensione ipnotica e struggente, nella quale non è chiaro quanto il passato subisca un riadattamento rispetto al tempo presente di Leo (i tardi Sessanta), subendo cioè la distorsione delle linee di forza del fermento politico e civile di quegli anni. È un gioco che Baldwin conduce in maniera piuttosto scoperta: quello che nei precedenti lavori sembra affiorare da un rovello intimo e concretizzarsi sul filo dell’inesprimibile, trova qui invece una voce chiara, esplicita, ed è quella della rabbia, della protesta, della rivendicazione.

Baldwin partecipò attivamente al Civil Rights Movement dei 60s, aderì al CORE (Congress of Racial Equality), ma la sua omosessualità lo pose spesso in una situazione scomoda anche all’interno della stessa cultura contestatrice. Viveva quindi sulla propria pelle una doppia discriminazione che alimentava un conflitto senza quartiere, per condurre il quale non poteva fidare su autentici alleati. Ormai abbastanza celebre e richiesto come lettore (i suoi saggi venivano apprezzati più delle opere di fiction), Baldwin poteva dirsi tuttavia isolato. Lo stesso si può dire di Leo Proudhammer, che nel suo lavoro di scavo interiore è, sostanzialmente, solo. Solo malgrado l’amore di Barbara (“…sembrava più profonda dell’acqua e inevitabile quanto l’aria“), una bianca ereditiera del Kentucky che dividerà assieme a lui le speranze e le difficoltà sulla strada per diventare attori (e oltre). Solo malgrado l’affetto del fratello maggiore Caleb, uscito devastato dal trauma della guerra (dove tra l’altro il razzismo raggiunge livelli di ulteriore profondità), tanto che solo diventando uomo di chiesa riuscirà a salvarsi dalla deriva. Solo malgrado il teatro, a cui sembra prestarsi come in terza persona, fuori di sé.

Nella sua ricerca di risposte per le quali non ha elaborato domande nitide, Leo finisce per ignorare l’attore, diffida del ruolo sociale (“…la gente si rivolge agli altri nella speranza di essere creata dagli altri“), concentra il fuoco del racconto sulla natura stessa della propria anima. Baldwin in questo romanzo sembra lottare con una contraddizione: da un lato suggerisce l’inevitabilità del conflitto politico e sociale, dall’altro però ripone nei movimenti una fiducia solo parziale, come se il loro linguaggio non possedesse gli strumenti e la granularità per risolvere il problema che cova nel profondo. Al contrario, vede l’individuo come il depositario di una soluzione di tipo esistenziale, a cui si può giungere solo grazie a un “contratto” che superi ogni forma di discriminazione, non escluse le proprie. L’individuo quindi come luogo solitario di scontro e sintesi tra passione e ragione:   

“La passione non è propizia: è arrogante, altramente sprezzante di tutto ciò che non è se stessa e, poiché la definizione stessa della passione implica l’impulso alla libertà, ha una forza possente e intimidatrice. Contiene una sfida, contiene una speranza indicibile. Contiene un commento a tutti gli esseri umani, un commento per nulla adulatore.”

C’è in ogni caso poco spazio per l’ottimismo. Si tratta comunque di una guerra che continua a ribollire appena sotto la superficie della legalità, sempre sul punto di manifestarsi non appena cala la soglia dell’attenzione sociale o viene meno un ingrediente dell’equilibrio. Situazioni quest’ultime che Baldwin distribuisce nella struttura narrativa come poli di attrazione e annullamento energetico, come se volesse ogni volta fare reset e rilanciare la narrazione su un nuovo livello. Indimenticabile l’incontro tra gli agenti di polizia e i due giovanissimi fratelli Proudhammer, con la routine del controllo che scivola inevitabilmente nella sopraffazione, come se fosse un intercalare del potere. Caleb viene picchiato selvaggiamente, e per Leo è un punto di non ritorno:

“Guardai le facce bianche. Mandai a memoria ogni neo, ogni cicatrice, ogni foruncolo e ogni pelo di narice; mandai a memoria gli occhi, quegli occhi sprezzanti. E desiderai di essere Dio. E poi odiai Dio.”

Ancora più agghiacciante nel loro sporgersi in bilico sul precipitare degli eventi, sono le pagine in cui Leo e Barbara percorrono per la prima volta in coppia, senza la presenza “mitigatrice” di un altro bianco come Jerry, la strada che li porta alla scuola di recitazione: mentre si addentrano nel quartiere, la comunità (ovviamente bianca) li osserva prima disorientata e quindi sempre più minacciosa, furibonda di fronte al tabù infranto del (presunto) rapporto interraziale. La tensione si accumula riga dopo riga, diventa mostruosa nel senso che mostra – rivela – il volto maligno sotto la patina sottile del quieto vivere. Poco più tardi, i due ragazzi sosterranno il provino decisivo per la loro carriera, sublimando la rabbia e lo sconcerto nel gesto dell’espressione artistica, nella reinvenzione della realtà. 

Ma, ancora, prevale un senso di solitudine, anche su un palcoscenico affollato: ogni attore è un’isola, quando dal copione estrai le coordinate che ti portano al centro nevralgico della questione, al punto di attrito tra individuo e mondo. C’è una pagina nel finale che trovo in questo senso emblematica, quando il bodyguard Christopher accompagna Leo in un locale di San Francisco, probabilmente il Fillmore West (che iniziò l’attività giusto in quel 1968) almeno a giudicare dalla descrizione di musica, fauna e light-show psichedelici. Ma Leo non comprende, si sente un intruso. Riconosce i segni di un rito sterile in quella manifestazione di debordante vitalità:

“La musica insisteva, inesorabile, nel passato. Nel futuro. Sembrava un tentativo di fare un gran buco nel mondo e di tirar fuori ciò che v’era seppellito. E i ballerini nella luce violenta, con le collane rutilanti, i lunghi capelli fileggianti, i mantelli ruotanti, sembravano, ridestati dalla morte, ballare nella loro tenuta di morte.”  


Non so cosa mi riserveranno gli altri due romanzi di Baldwin – Se la strada potesse parlare del 1974 e Sulla mia testa del ‘79 -, per non dire della sua produzione di saggi e racconti. In ogni caso, già quanto letto finora ha confermato le aspettative (che erano alte) e introdotto aspetti sorprendenti. Un “modern classic” che meriterebbe più diffusione, per l’attualità dei temi ricorrenti ma anche – soprattutto – per la qualità della scrittura e l’intensità dello sguardo.

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