Afferrare il cuore: Mastro Geppetto di Fabio Stassi

Non conoscevo Fabio Stassi, malgrado abbia pubblicato oltre dieci opere di narrativa (di cui tre “per ragazzi”, ed è un merito) e due saggi, senza considerare i racconti e le collaborazioni. Probabilmente avrei continuato a non conoscerlo, se non avesse avuto l’idea di far uscire un romanzo intitolato Mastro Geppetto, con l’aggravante che si tratta proprio di quello che il titolo lascia supporre: una rielaborazione del capolavoro di Collodi che mette al centro della vicenda il povero falegname. 

Pinocchio per me, come – penso – per molti della mia generazione, non è solo un libro “per ragazzi”, è una matrice, è un crogiolo di immaginario, che molto deve all’imprinting del celebre sceneggiato televisivo di Comencini – è per molti versi la prima serie tv che ricordi – nonché alle affascinanti edizioni cartacee con le illustrazioni del “figurinaio” Carlo Chiostri, roba che al confronto la riduzione cinematografica Disney aveva il sapore di una Coca annacquata (lo trovo tuttora assai insipido). 

Come ho già avuto modo di scrivere, credo che un elemento essenziale di Pinocchio sia il modo in cui alluda alla presenza della paura appena oltre il limite dello spazio narrativo, e che proprio questo farsi perimetro fantastico dai confini porosi – con l’intrusione costante della minaccia, della miseria, della precarietà – conferisca al racconto una dimensione emblematica, ne faccia il simbolo palpitante della condizione umana, qust’ultima neanche troppo cambiata – a dispetto delle vertiginose derive del progresso – da un secolo e mezzo a questa parte.

Stassi si permette di azzardare un’operazione che potrebbe apparire eretica: depone il burattino dal ruolo di protagonista e mette al suo posto Geppetto, il “polendina”, un vecchio falegname povero in canna, sbattuto (burattinizzato?) da una vita di stenti, sull’orlo di un disorientamento che fa sospettare una demenza incipiente, e in ragione di ciò zimbello di un villaggio chiuso nel suo gretto isolamento. 

Immancabilmente, diventa oggetto di uno scherzo crudele: il “collega” Mastr’Antonio, riconoscibile dal naso rosso come una ciliegia, gli regala un pezzo di legno pieno di nodi spacciandolo per un ciocco prodigioso. Geppetto accetta il regalo come una benedizione e, come sappiamo, ne ricava un burattino che subito considera come un figlio. Anzi: come quel figlio che gli consentirà finalmente di realizzare un sogno, di uscire dalla bolla di miseria e avventurarsi nel mondo, fragile e tenace come il vagabondo di Chaplin (altro personaggio amatissimo da Stassi). Di vivere, insomma.

“Chi è che ci getta senza nessuna pietà nel pandemonio del mondo? Perché non si fa mai avanti?”

Ma lo scherzo non è finito: con accanimento crudele e la complicità delle istituzioni (i Carabinieri, il maestro…), i compaesani assecondano i vaneggiamenti di Geppetto, gli sottraggono il burattino e lo spingono alla sua ricerca, disperata e dissennata, ma che per il falegname diventa – malgrado i risvolti tragicomici – proprio quell’avventura di vivere che fino allora non aveva sperimentato. 

Il Pinocchio originale aleggia come uno spettro, si srotola in parallelo come un rumore di fondo mnemonico, vive nei personaggi come se quelli reimmaginati ne rappresentassero l’ombra e viceversa. C’è come un’impollinazione reciproca tra il testo di Collodi (e sue successive rappresentazioni) e quello di Stassi, il cui principale pregio è forse quello di non sembrare una propaggine accessoria e meno che mai furba, ma un alone poetico necessario.

Intendo dire che attraverso questo stravolgimento tanto calcolato quanto accorato, il Pinocchio acquista di nuovo senso, o ne rivela ulteriormente, incaricandosi di rappresentare la condizione universale di chi cerca nel transito terrestre quel barlume da inseguire, e le parole – difficili, sfuggenti – per raccontarlo. Soprattutto oggi, nel frangente storico che ci vede bisognosi di parole che sappiano dire, che ci mettano in grado di raccontare un presente scivoloso, frammentato nel rimbombo dell’assertività urlata e condivisa.

Se volete, considerate Mastro Geppetto una versione di Pinocchio, coraggiosa e riuscita come sanno esserlo le cover di certe canzoni quando i musicisti non si limitano a una replica ma ne intendono afferrare il cuore, a costo di aprire varchi e smuovere equilibri che ne mettano in discussione l’aspetto e la struttura. Spesso è il modo migliore – l’unico – per confermarne la forza e le pulsazioni. La vita. 

“Ma che importanza ha un nome? Non siamo tutti lo stesso sbuffo di fiato, che può ammutire da un momento all’altro?”

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