Trilogia della distanza – Pieralberto Valli

“Finito di scrivere a marzo 2020” è la nota finale che regola l’angolazione della luce, la densità dell’aria, il ritmo cardiaco di questa seconda prova letteraria di Pieralberto Valli, musicista e cantautore sui generis sia da solista che nei Santo Barbaro.

Non è il primo segnale di vita creativa collegato al lockdown da parte di Valli, già c’era stato un album tanto estemporaneo quanto emblematico, pubblicato all’impronta nel pieno di quel vuoto che ci aveva sorpresi – tra febbraio e marzo appunto del 2020 – come un ladro di notte, rubandoci ritmo, aria, luce, prossimità. Tanta era l’urgenza fragile di quel disco, quanto ponderati sembrano i motivi che sostanziano questo Trilogia della distanza.

Al di là della natura fisiologicamente più meditata e stratificata – correzioni, aggiustamenti, tagli, integrazioni… – correlata alla scrittura, i tre racconti lasciano intuire una progettualità solida, sia per l’equilibrio interno che per come si armonizzano tra di loro, pennellando situazioni incastonate in uno stesso scenario, che potremmo definire distopico ma – come dire – ben poco lontano dalla situazione attuale, anzi vicinissimo, appena dietro la palpebra del presente.

Il distanziamento diventa quindi la dimensione del controllo, dove il prezzo della sicurezza è il collasso dell’umano. Nel primo racconto, Panopticon, quasi un romanzo breve che da solo copre i due terzi del volume, al protagonista/io narrante non resta che una dimensione mitizzata del suo amore per la ragazza da cui è stato improvvisamente separato: tentare di raggiungerla non significa solo infrangere le regole ma addirittura sottrarsi al consesso sociale, diventare un esule, un reietto, e acquistare quindi la facoltà ( la condanna?) di uno sguardo esteriore, che produce lucidità e ulteriore alienazione. È quello che accade anche allo strano triangolo del secondo racconto (Tre di treno), una relazione fatta di distanze (“almeno tre metri”) che un mattino, senza una ragione particolare, subiscono un sensibile sbilanciamento, una perturbazione che compromette l’equilibrio delle regole interiori determinando la possibilità dell’emozione, del sentimento, dell’umano. Nell’ultimo racconto (Il compleanno) invece la regola subisce un’accelerazione parossistica che le consente di fagocitare le convenzioni sociali e le leggi di natura, fino a rendere il sistema così pervadente da sublimare la dittatura in una strisciante deificazione: la distanza ha invaso l’ultimo campo, quello che sovrintende la possibilità di un “io” nella sterminata trama del “noi”, annullando la resistenza residua, perfino lo spasmo della sopravvivenza. Quindi la regola è Dio, un Dio che ha dimenticato l’uomo.

Valli è abile a dosare taglio lirico e analitico nel primo racconto, riuscendo così a trascinare il lettore al centro del denso bilancio esistenziale e sentimentale del narratore, mentre negli altri racconti – narrati in terza persona – adotta un distacco asciutto bilanciato da una morbidezza puntigliosa di stampo favolistico, quasi che Ballard si fosse fatto un giro tra le inquietudini umoristiche del Marcovaldo di Calvino, riuscendo così a sottolineare la sconcertante neo-quotidianità in cui si trovano immersi i protagonisti.

Si tratta quindi di una lettura emozionante e necessaria, anche se scomoda in un clima inquinato dalla grossolana polarizzazione del dibattito (proprio mentre sfogliavo le ultime pagine si svolgeva a Roma la manifestazione dei cosiddetti negazionisti). Valli non sfiora neanche argomentazioni tacciabili di complottismo, neppure nomina la malattia (a parte alludere a una “peste” non senza però intenti simbolici), ma si colloca in un “dopo” che ha tutta l’aria di discendere naturalmente dal “prima”, quasi che la distanza fosse (sia) una condizione preesistente, sedimentata all’ombra dell’esposizione catodica prima e dell’iperconnessione social poi, quindi portata alla luce dalla prima discontinuità significativa. Comunque la si pensi, prendere coscienza del cambio di paradigma – con tutte le ricadute in termini di dinamiche sociali ed emotive – mi sembra un passaggio cruciale, tanto nella sfera del politico che in quella del privato, forse mai tanto compenetrate e simultanee.

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