Il sogno, un impero

Vanni Santoni compie un passo verso la dimensione narrativa pura (del resto già ampiamente sperimentata in Terra ignota), ma senza scrollarsi di dosso del tutto il taglio – si utilizzino le virgolette del caso – “divulgativo” di Muro di casse e La stanza profonda (dedicato alle vicende e alla cultura dei rave party il primo, a storia e immaginario dei giochi di ruolo il secondo).

Il protagonista e io narrante del suo ultimo romanzo L’impero del sogno, Federico (che abbiamo già incontrato – come altri personaggi – nei lavori precedenti di Santoni), è uno studente universitario che bleffa coi genitori riguardo agli esami sostenuti, i quali un po’ ci credono e un po’ fanno finta di, consentendogli questa sorta di adolescenza prolungata che lui imbottisce di giochi di ruolo, letture, viaggetti chimici e turbe sentimentali, con un’insoddisfazione gelatinosa ad allargarsi prospettica sullo sfondo.

Siamo nel 1997, periodo non certo (non credo) casuale: l’internet si trova vieppiù nelle biblioteche e solo se sei disposto a sorbirti lunghe code d’attesa, mentre ben lontani da venire sono i tempi degli smartphone, del gaming online, dell’iperconnessione che sminuzza e intreccia gli spaziotempo. Certo, ci siamo (ci eravamo) quasi, la svolta è (era) alle porte, il millennio si sta(va) sgretolando in qualcosa di nuovo, di incontenibile e pervasivo, tanto che avrebbe finito per logorare i margini dell’ignoto, del mistero e del fantastico in favore di una disponibilità e simultaneità tanto ricca quanto, a ben vedere, arida.

Ma nel “prima” in cui si svolge questa storia, i margini per il fantastico possedevano ancora un’estensione e una consistenza di rilievo. Persino: preponderanti. Fa quasi tenerezza, Federico, mentre prende coscienza che il suo scivolare nel sonno e quindi nel sogno sta diventando un’alternativa delirante e persino spaventosa del quotidiano, eppure credibile, eppure desiderabile. Il sogno diventa seriale, realtà (vita) parallela e alla lunga convergente. Fino a mescolarsi alla realtà e innescare un’avventura febbrile e bislacca, un pandemonio fantasy citazionistico e fitto d’azione, condotto attraverso dialoghi arguti ed elusioni sistematiche (come dire: inutile soffermarcisi troppo, sapete come vanno certe cose).

Livia e Gemma rappresentano per Federico le compagne d’avventura perfette, come perfetti nella loro mostruosità (ora buffa, ora raccapricciante e ora terribile) sono i nemici: una perfezione che sa di proiezione. Così, mentre l’immaginario diventa immaginato e l’impresa tiene a distanza la resa, ci immergiamo in una dimensione che mette a sistema la fantasia e il fantasticare, sedimentando mondi, gerarchie, passaggi, una struttura espansa e malleabile.

Una prassi che è anche un universo, insomma, a cui Santoni dedica questa sorta di omaggio colto, affettuoso e divertito (nel quale non posso fare a meno di avvertire – mi perdoni, se può – una nota nostalgica), cogliendo altresì l’occasione, visto che c’era, per chiudere un perimetro attorno a tutta la sua produzione, apparentando i diversi progetti con il sostrato di una visione omogenea.

Un libro, ancora una volta, riuscito e sottilmente necessario.

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