Mai sconfitto: New Iberia Blues – James Lee Burke

“A volte ho una strana sensazione”, disse.
“Tipo?”.
“Che siamo tutti morti e non lo sappiamo”.

Ci sono detective che inseguono criminali, scrutano nel buio di una mente omicida, affrontano i rompicapo di delitti indecifrabili con la cocciutaggine della goccia sulla roccia, tentano di mantenere integra la membrana che separa il bene dal male, la giustizia dal sopruso, l’etica dall’orrore. Robicheaux non fa eccezione, ma il suo reale antagonista è di quelli che non si possono sconfiggere: il tempo. O meglio, la coscienza del tempo. Ed è una coscienza che si fa carne, percezione, sogno, parola. Dave Robicheaux è un reduce del Vietnam come l’amico fraterno Clete Purcel, l’anima di entrambi segnata da rimorsi come cicatrici pulsanti. Assieme, fanno due relitti che galleggiano in una dimensione sospesa, melmosa.

Come il Bayou, come il Teche. Come l’aria pregna di odori, lo sfondo obliterato dagli onnipresenti alberi pecan, ammorbata dal contrasto selvaggio tra squallore e potere: uno scenario in cui tutto accade sotto una pellicola marezzata di insidie e doppiezze, dove è il caso di guardarsi dall’ombra di ogni evidenza, dal mostro che può celarsi in ogni individuo. Robicheaux vive sospeso nella sua sala da ballo dell’Overlook Hotel (una sala espansa fino a diventare regione geografica, eppure sempre soltanto un luogo della mente, un ticchettio del cuore), alla presenza/assenza dei suoi fantasmi. Quando si muove, è come se mettesse in conto lo sforzo di doversi fare largo nel folto di memorie, rimpianti, dolori, affetti strappati e vite spente.  

“Non riesco più a guardare il sole che attraversa il cielo e si trasforma in una palla fusa senza provare una debolezza nel cuore, come se Dio uccidesse se stesso con ogni foglia che vola, e senza pensare che non c’è furto più grande di quello del tempo.”

C’è, ancora una volta, un caso da risolvere. Un corrugarsi della superficie falsamente quieta. Siamo a New Iberia, Louisiana. Il corpo di una ragazza viene rinvenuto nelle acque della baia. Non si tratta di un normale annegamento: il cadavere è fissato con corde e chiodi a una grande croce di legno, come il simulacro di un rituale blasfemo. L’abitazione del regista hollywoodiano Desmond Cormier, che Robicheaux conosce fin da quando era un povero ragazzo sanguemisto di New Orleans, è poco lontana dal luogo del ritrovamento: il meccanismo inizia a girare.

Procederà attraverso altri terribili scene di omicidio allestite come teatrini che alludono alle carte dei tarocchi, evasi che entrano ed escono dal cono di luce, poliziotti dalla doppia vita e il marciume nell’anima, killer psicotici mossi da una morale distorta ma a suo modo rigorosa, musiciste che vivono il blues (e il voodoo) prima di cantarlo, dinamiche affettive che stridono con la fatica sorda e scivolosa dei legami complessi (a partire dalla “sconveniente” relazione di Robicheaux con la più giovane Bailey), tutto uno sgranarsi di ossessioni, ambizioni, personalità ingombranti che sgomitano per farsi largo, dominare.     

La catena di omicidi diventa una via crucis profana dalle stazioni atroci, tanto provocatorie quanto impenetrabili: il tentativo di dipanare la matassa coincide per Robicheaux con una sorta di espiazione frustrata, un processo innanzitutto mentale che lo conduce sistematicamente al cospetto del nemico suddetto, il tempo bastardo che ha reso il passato un fantasma, presenza non presente che esala dalla terra, custode di memoria fangosa, golem rarefatto custode di tutto ciò che di efferato può riposare nel cuore degli uomini.

Robicheaux procede, si spinge avanti, accetta le conseguenze dei propri errori ancora prima di compierli (come se li avesse già commessi). Sa essere spietato ma non esce mai dall’alveo della pietas. Conduce il suo mestiere con tanto raziocinio quanta impulsività, tuttavia sapendo che ogni gesto è atteso dal giudizio della riflessione, dal suo specchiarsi nelle acque nere dell’anima:

“Ho indagato su molti omicidi. Sono gli occhi che ti restano impressi. E non per quello che crede la gente. Non c’è nessun messaggio in quegli occhi. Invece, ti costringono a ricreare il terrore,la disperazione e il dolore che hanno segnato i loro ultimi istanti sulla terra. Due tipi di poliziotti si suicidano: quelli corrotti e quelli che lasciano che i morti rivendichino il diritto sui vivi.”

Leggendo New Iberia Blues vi immergerete in un giallo a forti tinte noir, nel quale gli ingredienti tipici del genere – tensione, azione, oscurità, pulsioni sessuali, doppiezze psicologiche, manifestazioni ed elusioni, morti “odiose”, la frizione costante tra legge e giustizia… – vengono dosati con perizia magistrale da un sempre più lirico – ma non meno asciutto e spietato – James Lee Burke. Tuttavia, sarà con lo sguardo di un uomo logorato, infestato, devastato dal tempo, eppure non sconfitto, che avrete a che fare.    

«Ti sei fissato, Dave. Non te ne rendi conto». 
«Fissato su cosa?».
«La distruzione del mondo in cui sei cresciuto».
«E dovrei ignorarla?».

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