Una maglietta dei Joy Division (o una corazza)

Guess your dreams always end.
They don’t rise up, just descend,
But I don’t care anymore
(Insight – 1979)

Faceva caldo. Un caldo atroce. Arrancavamo in fila indiana lungo un sentiero accidentato che doveva condurci a un’insenatura – così dicevano – magnifica, raggiungibile solo via mare o a piedi. Noi avevamo scelto i piedi: passo dopo passo, nel caldo atroce, tra inciampi e bestemmie silenziose, procedevamo verso l’ambita meta. Le battute e le chiacchiere si erano spente da un pezzo. Gli zaini tagliavano le spalle. Il sudore formava una pellicola che colava sulla schiena e si rigenerava con formidabile rapidità. Tutti si erano tolti la maglietta. Non io. Ne indossavo una chiara, di un giallo sbiadito. I molti lavaggi non c’entravano, era sempre stata così. Anche la stampa sul petto non era mai stata particolarmente nitida: sia la scritta che l’immagine erano impresse in toni di grigio tutto sommato suggestivi. Sembrava, come dire, una dissolvenza.

Dopo oltre mezz’ora di saliscendi accidentato in quella torrida metà mattina di agosto, la vista del mare si spalancò di fronte a noi col suo azzurro quasi irreale. L’insenatura era in effetti magnifica, ma capii subito, con un tonfo sordo di delusione in mezzo al petto, che non saremmo stati in pochi a pensarlo. La spiaggia, circondata da scogliere bianchissime, era una tela su cui un novello Pollock aveva vergato pennellate di ombrelloni, teli e tende, mentre il brulicare pigro dei bagnanti si distribuiva tra il beige abbacinato della sabbia e l’azzurro delle acque placide. Di fianco alla spiaggia, impegnati a sfruttare l’ombra dei pochi pini, stavano un paio di edifici bassi con sospetta funzione di mini bar. Smaltita la perplessità, procedemmo fino al termine del sentiero, dove trovammo ad attenderci alcune bancarelle di oggettistica e abbigliamento tendenzialmente – e approssimativamente – esotico. Il gestore di una di queste bancarelle era un tipo alto, i capelli radi ma lunghi sul collo, barba di una settimana sopra una parata di collanine colorate, occhiali da sole tondi con le lenti azzurre, l’abbronzatura legnosa. Mi fissò mentre gli passavo accanto. Ero sconvolto dalla sete, dalla fatica, dall’amarezza per quell’angolo di paradiso aggredito dalla piovra del turismo. Turismo di cui – ne ero tristemente consapevole – in quel preciso momento rappresentavo uno dei mille odiosi tentacoli. Ricambiai lo sguardo del tipo della bancarella finché lui non lo abbassò sulla mia maglietta. Fece un cenno di approvazione, sorrise compiaciuto. Disse: “grandissima band, grandissima canzone”.

Stampata in toni di grigio sulla maglietta chiara, che ancora possiedo e curo come una reliquia, c’è un’immagine di Ian Curtis, la postura rappresa, grave. In alto, una scritta: Joy Division. In basso: Love Will Tear Us Apart.

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Ho una teoria sulle magliette rock. Credo che d’estate servano a dire agli altri chi sei davvero e malgrado tutto. Malgrado il contesto, la situazione, il luogo, le regole e le costrizioni che sembrano impegnarsi per fare di te qualcosa di diverso da ciò che senti di essere. Impossibile poi non considerare quel briciolo di narcisismo snob che caratterizza quanti si illudono di possedere gusti musicali superiori alla media: un aspetto quest’ultimo che innesca curiosi cortocircuiti durante i concerti rock, quando scorgi tra il pubblico magliette inneggianti – chessò – Nick Cave And The Bad Seeds mentre sul palco si stanno esibendo – chessò – gli Arcade Fire. Più sconcertante ancora è lo spettacolo di certe madri o certi padri con indosso la t-shirt dei Cure o dei Sonic Youth mentre spingono il passeggino ai giardinetti pubblici, lo sguardo tra l’affettuoso, l’esausto e lo smarrito che sembra chiedersi dove inizi il sogno e dove finisca l’incubo (credetemi: so di cosa parlo). E che dire del tizio che incontro spesso al supermercato con la maglietta dei Clash? Questo per quanto riguarda l’estate. 

Ma è d’inverno, ne sono convinto, che le magliette rock adempiono alla loro vera funzione. Quando cioè togli la camicia o il maglione (spesso entrambi) e lei è lì, la tua maglietta di PJ Harvey, dei Radiohead, degli Smiths, di David Bowie, degli Who, degli Stones, dei Joy Division: è lì, la tua maglietta, a ricordare a te stesso chi sei. Malgrado tutto. 

Possiedo due magliette dedicate ai Joy Division. Una è quella che tanto piacque al tipo della bancarella. L’altra è una variazione della celebre copertina di Unknown Pleasures (le scritte, chissà perché, sono in giapponese: quando la comprai mi parve un simpatico depistaggio). Quel giorno d’estate, sotto quel sole abbacinante, in quel luogo meraviglioso da cui sentivo di voler fuggire un secondo dopo averlo raggiunto con tanta fatica, la mia maglietta era la mia tuta da palombaro, la mia scorza, il serbatoio dell’ossigeno, l’igloo refrigerante, lo specchio in cui riflettermi e poter dire malgrado tutto: “io”. Al tipo della bancarella dedicai un cenno rapido: non cercavo solidarietà né intese di alcun tipo. “Fottiti”, pensai. Ce la saremmo vista da soli, io e la mia maglietta dei Joy Division. In quel frangente orribile che ero tenuto a vivere.

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Ho vissuto gli anni Ottanta come si dovrebbe sempre poter vivere: crescendo. È impossibile dimenticare il modo in cui prendevano vita i pensieri, la forma delle emozioni, gli scontri dialettici. Era tutto meraviglioso un attimo prima di diventare frustrante. Tutto lo era, a partire dal modo in cui avvertivo stringersi e logorarsi il sentiero tra me e i sogni, i desideri e le prospettive. Intanto montava implacabile il bisogno di amicizia, di divertimento e – va da sé – di sesso. C’erano poi il richiamo della curiosità, la necessità di capire, la predilezione verso quelle che i miei insegnanti chiamavano “materie umanistiche” e i miei amici invece: “seghe mentali”. Ecco: questo impasto molto instabile e ben poco sensato di colpo si trovò obbligato a dover scegliere. E la scelta – in obbedienza a una concezione utilitaristica della scuola che all’epoca aveva perfettamente senso – fu assai pragmatica: rotolare in un Istituto Tecnico Industriale. In quel momento una cappa grigia iniziò a chiudersi sopra di me. 

Da lì in avanti i miei anni Ottanta divennero di asfalto bagnato, cappotti sformati, stupide discoteche, panchine nascoste e rapporti urgenti ma goffi con l’altro sesso. E tutti quei sabati sera in apnea da aspettative quasi sempre deluse, domeniche afasiche e lunedì mattina crudeli, pomeriggi sordi nella morsa di un freddo più emotivo che climatico. Le estati degli anni Ottanta non erano che allucinazioni rapide, miraggi ingannevoli, una luce abbacinante alla cui ombra accadeva tutto il resto. Quel tutto il resto che era inverno e periferia. E poi ancora inverno, e periferia ovunque. 

Avevano un suono preciso, quei miei anni Ottanta: compresso, metallico, cupo. Come uno sguardo inespressivo che indicava la catena di montaggio. Come l’odore dell’officina in cui si fabbricava il nostro destino. Come il soffocare lento di speranze alle quali non avevo saputo dare una forma. Sapete cos’era il post-punk? Era una scossa gelida, uno strappo sulla mappa nel tentativo di riportare a casa ogni sera la mia anima rattrappita. Oltretutto, passavo quei giorni che diventavano mesi immerso nel timore neanche troppo vago di imminenti conflitti nucleari (la guerra fredda era uno stato dell’anima) e nell’incapacità di prendere una posizione netta rispetto al grande scontro ideologico in atto. Vivevo tutto ciò con apprensione, come se fossi lo spettatore di una messa in scena iniziata da ben prima che venissi al mondo e rispetto alla quale non potevo nulla. 

Confesso: sulle prime fui metallaro. Cazzo, era così semplice l’heavy metal. Da qualche parte un giornalista – non ricordo chi – lo definì con queste parole: “il muro più morbido dove sbattere la testa”. Non ho mai trovato una definizione migliore. Ovviamente l’heavy metal era una mascherata, spesso sferragliante e a tratti cialtrona, che per fortuna si dimostrò tutt’altro che impermeabile. Ben presto infatti molto altro iniziò a filtrare. Ultravox, Cure, Clash, ad esempio. E, ovviamente, i Joy Division. 

***

Mi terrorizzavano, i Joy Division. Le loro canzoni sembravano un filo elettrico scoperto in una stanza buia: ti ci dovevi muovere con molta cautela. Adesso che ci penso, li conoscevo solo di rinterzo, ascoltandoli dagli stereo degli amici. Non comprai né mi feci registrare nulla di loro finché non ebbi lasciato l’adolescenza alle spalle. Credo sia stato un puro atto di codardia (va da sé, adolescenziale). Il suicidio di Ian Curtis era uno dei racconti più popolari e mitizzati nel mio giro (sparuto) di appassionati rock. Ce lo raccontavamo rapiti, un po’ scossi, certo, ma tutto sommato ammirati, come se il suicidio rappresentasse una trasgressione particolarmente efficace: l’offesa definitiva sputata in faccia all’insopportabile buonsenso. Era così, in effetti. Era esattamente quello di cui sentivo (sentivamo) il bisogno. Ma in realtà non riuscivo ad accettarlo. 

L’idea del suicidio mi raccapricciava. Forse perché la vedevo come un’eventualità neanche troppo improbabile in mezzo a tutte quelle prospettive accartocciate. Procedevo storto e vulnerabile come una chiocciola col guscio incrinato. Ecco, il punto era proprio questo: non avevo ancora trovato la corazza giusta. 

Sono stato in grado di ascoltare davvero i Joy Division quando mi sono lasciato gli anni Ottanta alle spalle. Vale a dire, quando ho strozzato quel che restava dell’adolescenza. A quel punto ho capito che se canzoni come Isolation o Heart And Soul  mi incatenavano agli altoparlanti (o, più spesso, alle cuffiette del walkman) era per la loro stessa consistenza spettrale, per quel dileguarsi un attimo dopo essersi impressi sulla retina. Come apparizioni in agguato, scivoloni inevitabili sul ghiaccio sottile di giorni precari.

La corazza è il negativo di quello che diventiamo. Una pellicola protettiva non sviluppata. Ci permette di valutare, di analizzare, di mantenere un certo distacco dal tradimento che commettiamo nei nostri confronti. Dal tradimento che consapevolmente, intenzionalmente, commettiamo. Per assenza di alternative, oppure – ma in fondo è la stessa cosa – perché nel momento che conta ci manca il coraggio di strappare il sipario, di forzare gli schemi, di calpestare lo stradario. 

Sapete come va a finire? Che impariamo a convivere col peggiore dei tradimenti. Ci facciamo pace. Ci perdoniamo. E i Joy Division? Sono ormai solo parole, timbro, suono. Una corazza di cui non sento più realmente il bisogno. Eppure, continuo a indossarla. Sotto la camicia o il maglione, sulla pelle, mi capita spesso di indossare una maglietta dei Joy Division. Quella con la celebre copertina di Unknown Pleasures, molto più celebre del disco stesso (ahimé). Oppure quella con Ian Curtis, i tratti in dissolvenza, il suo sguardo negato. Impazzito di luce. Troppo presto ingoiato dal buio. 

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Questo racconto (è un racconto?) è stato pubblicato nel volume Nessun perduto amore. Un canto per Ian Curtis (edito da Consorzio Autori del Mediterraneo)

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