La gloria e l’amnesia: Purple Rain

Quel bar non esiste più. Sparito. La sua stanzina del juke box, senza finestre, con le poltrone basse, un odore inclassificabile (segatura, varechina, fibre intrise di tabacco e altri liquidi innominabili). Volendo essere generosi – ma anche obiettivi – era una specie di privée sonoro. Il nostro privée. Il rifugio ideale per un pugno di ragazzi che volevano saltare la scuola. “Fare forca”, lo chiamavamo (mi dicono che, registro elettronico o no, i ragazzi fanno forca lo stesso. Almeno questo, c’è ancora). In ogni caso, è sparito.

Il Bersello, anche lui: sparito. Lo chiamavamo così. Il nome vero un po’ l’ho scordato, un po’ lo tengo per me. Compagno di classe di quelli indispensabili, il giusto dosaggio di tendenza allo sbraco e intensità di pensiero, famiglia ricca, una generosa collezione di vinili (dei suoi genitori, del fratello maggiore). E poi la capacità di trovarsi sempre nella giusta disposizione d’animo, magari con quel po’ di fumo da condividere. Poco fumo per me, molti vinili duplicati su cassette a cui ho voluto quel bene che si riserva ai compagni di viaggio. Quelle cassette, ovviamente, sparite. Pure loro.

Purple-Rain-Album-Review

Compravo i vinili che potevo permettermi. Pochi. Solo quelli che sentivo di dover comprare. Uno di questi fu Purple Rain. L’estate dell’84 finì inevitabilmente per intrecciarsi a quei suoni isterici e appiccicosi, a quel miscuglio irresistibile di carne ed elettricità, a quel punto di fusione incalcolabile di black, pop e rock. Avete presente le toppe sui jeans? Ecco. Io, mai amate. Eppure me ne feci cucire una: di Prince.

In autunno, ero ancora preso da Purple Rain. Molto preso. Una mattina finimmo di nuovo nella stanzina del juke box, nel nostro privée. Il solito pugno di ragazzini storditi da un ottobre arrivato all’improvviso, bisognosi d’una forca di orientamento, la prima del nuovo anno scolastico. Bisognosi di quel po’ di fumo e quel po’ di chiacchiere prima – chessò – di un biliardo, di un ping pong, di un nulla svaccato sulle poltrone fetide. Io e Bersello finimmo per parlare di Prince.
“Mi piace, ma…”, lui dice.
“Ma? “, lo incalzo io, in allarme.
Lui fa un tiro, il tizzone che sfrigola. Mi fissa, la sclera infiammata, lucida. Nel suo sguardo di colpo scorgo l’autorevolezza costruita a forza di cassette duplicate senza che potessi ricambiare. Uno sguardo che è gerarchia, destino, distanza.
“Ritmo, suoni. Tutto bello”, dice. “Ma la melodia”, scuote la testa, “non va. Non ha senso della melodia”.

Il bar, i biliardi, il ping pong: spariti.
Le ore solide delle mattine in classe, le scosse liberatorie delle forche. Sparite.
Persino i locali della scuola: spariti (cambiata destinazione d’uso).
La toppa sui jeans e quei jeans (tutti i miei jeans): spariti.
Lo strano groviglio che si stava allargando dentro di me, qualunque cosa fosse.
Sparito.

Lo sguardo infiammato di Bersello, all’improvviso distante, ostile. La necessità di dare forma, direzione, forza al mio sentire. Di opporre me stesso, nel modo migliore possibile, a quella cosa. Una cosa di cui non sapevo bene ma a cui dovevo oppormi, per essere me.
Le colombe che piangono, la febbre stellare, l’insidiosa tristezza informatica (quell’urlo lacerato/lacerante alla fine di Computer Blue), la linea d’ombra tra sensualità scoperta e astrazione androide, la pioggia viola (dio, la pioggia viola). Quel linguaggio musicale ed estetico che ricollocava modi e forme in una sintesi nuova ma piantata chiaramente e in profondità in un terreno antico (che sentivo di volere e dovere conoscere). Una sintesi piena di prospettive, in bilico tra confini che sentivi di poter oltrepassare, di non poter fare altro che questo: attraversarli. E sentire di averlo voluto sempre. Una sintesi pronta alla smentita e all’esplosione, alla gloria e all’amnesia. Un linguaggio che eri tu.

Tutto andato, sparito.
Ma vivo.

Purple Rain usciva il 25 giugno del 1984.

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