Insensibilità e dissesto: Bret Easton Ellis – Le schegge

Bret Easton Ellis lo ha fatto di nuovo. Non è certo la prima volta, intendo, che gioca con la cassetta degli attrezzi dell’autofiction. Anzi, in un certo senso lo ha sempre fatto. La sua scrittura sembra cioè essersi sempre trattenuta sulla linea di confine (o d’ombra) tra autobiografia e finzione per intrattenere il lettore con crudeltà, con una spietata mancanza di pietas che ha la caratteristica non certo secondaria di sembrare necessaria, conseguente, per nulla gratuita. L’insensibilità come sentimento, per farla breve, con un’espressione utilizzata da Bret per descrivere la compagna di classe Susan. Bret Ellis, ovvero l’io narrante e una sorta di avatar dell’autore stesso, protagonista di questo nuovo Le Schegge, settimo romanzo per lo scrittore losangelino arrivato a ben tredici anni dal non proprio memorabile Imperial Bedrooms

La novità è costituita dal ritorno dell’ambientazione ai primissimi anni Ottanta, quelli che vedevano Ellis frequentare l’istituto Buckley, una “college preparatory” di elite situata nella San Fernando Valley, luogo in cui convergono quindi ragazzi di buona e ottima famiglia, che portano avanti un’esistenza lussuosamente brada, l’autorità genitoriale pressoché vaporizzata in un’apoteosi di agi, ovvero delegata a tate e governanti senza reale autorità (peraltro non richiesta). Ragazzi insomma che vivono nel “tempio dorato dell’adolescenza”, nel quale non ha cittadinanza il concetto di privazione ed è quindi tempestata di ville da sogno, automobili di alto bordo, abiti e accessori rigorosamente firmati, ristoranti esclusivi e tutto un contorno di alcool, stupefacenti e psicofarmaci come se fossero l’intercalare standard di quel tenore esistenziale.      

Il gioco di immedesimazione di Ellis (l’autore) in Bret (il personaggio) è stratificato e sottile. Nel gioco della reminiscenza, Bret riferisce infatti come nel 1981 in cui si svolgono i fatti stesse lavorando a quello che sarebbe diventato Meno di zero, il suo romanzo d’esordio. La finzione collassa al modo di una forma d’onda quantistica nel suo opposto inverato dalla cronaca, ovvero nella realtà biografica nota e documentata, spingendosi (e spingendo il lettore) sulla linea d’ombra suddetta, dove siamo tenuti a chiederci cosa sia davvero questa realtà letteraria che si sta dipanando sotto ai nostri occhi. Un dipanarsi che si mantiene in bilico sul thriller psicologico ma entro la cornice – oggi assai popolare – del teen drama. 

Ma questi schemi stilistici di riferimento vengono per così dire eviscerati, resi inerti ed evocativi come cadaveri sul tavolo autoptico, perché Ellis stabilisce col lettore un’intesa scoperta pure se mai dichiarata: è in corso la rappresentazione di una rappresentazione. Non solo la vicenda dei ragazzi attraverso lo sguardo (la memoria) di Bret sembra accadere dietro a uno schermo, avvolta in una patina di artificio che del resto è mimetico alla vita artificiale che sono impegnati a condurre (“Niente di tutto questo è reale”, dice il Bret “visibilmente partecipe” al se stesso insofferente riflesso nello specchio), d’altro canto anche l’escamotage narrativo di Ellis (un flusso di memoria risvegliato dall’incontro casuale dopo molti anni con una ex compagna della Buckley) non smette mai di apparire tale, un trucco appunto. 

La giornata diventava semplice una volta che fingevi,anzi, diventava piú vera grazie al fatto che avevi cambiato atteggiamento; la recitazione diventava la realtà e influenzava ogni cosa in un modo che sembrava positivo. In effetti, era preferibile alla realtà.

L’incredulità insomma non risulta mai del tutto sospesa, eppure ci risucchia, ci imprigiona in un bisogno di finzione che ha tutta l’aria di poter rivelare realtà nascoste sotto la pelle della realtà. Perché lo scrittore “sente cose che non ci sono”.

Le “schegge” del titolo – ma la traduzione letterale dell’originale “The Shards” dovrebbe essere “I frammenti” – si riferiscono forse all’emersione appunto frammentaria e frammentata della memoria attraverso la superficie di ciò che nel tempo si è consolidato diventando biografia, un profilo composto di ciò che viene esteriormente accettato e messo agli atti, ma che non tiene conto di ciò che ha agito nell’oscurità, di quello che non è stato rilevato, documentato. Va detto che il titolo potrebbe anche riferirsi più prosaicamente a come questo romanzo ha preso vita, ovvero in forma di puntate (ventisette) di un podcast pubblicate per un anno a partire dal settembre 2020. In ogni caso, tutto si tiene, anche se pare sempre sul punto di dissolversi o crollare. E proprio per questo, credo, tiene in scacco il lettore.

Che comunque si trova alle prese con una trama godibile, avvincente, da cui probabilmente verrà tratta una serie TV (le potenzialità ci sono tutte). Una trama oltretutto non priva di risvolti sexy spinti sul filo della dissolutezza e, come è tipico in Ellis, in stridente contrasto con la “cosmetica” esteriore, questo tentativo di definire un optimum estetico (modaiolo) che si vorrebbe ideale e invece finisce per accartocciarsi nel fantasma inerte di se stesso. Tornare agli Ottanta – che furono in fondo un prequel dei nostri anni ma senza (ancora) internet – è un po’ come recuperare il centro di gravità di una critica profonda al conformismo iperconsumistico – e conseguente dissesto della percezione del mondo e di sé – che da sempre costituisce il carburante poetico dell’autore di American Psycho

L’equilibrio del gruppo di amici messo in crisi dall’arrivo del nuovo compagno di classe (il problematico e bellissimo Robert), l’omosessualità latente tra gli studenti (a tratti esplosiva in Bret), la luccicante desolazione del mondo adulto (in bilico tra jet-set hollywoodiano, anaffettività e dipendenze rovinose), i codici di una “vita al massimo” appena scalfiti dall’intrusione degli orribili (e grotteschi) delitti commessi dal “Pescatore a strascico”, il rimbalzo paranoico dei sospetti che surriscalda il gioco delle trasgressioni standardizzate: tutto ciò conduce a un finale che, a dire il vero, non sorprende. Ma non conta: è il percorso compiuto che ci scava dentro, con la precisione chirurgica di chi sa sfilettare anche i sentimenti per svelarne ciò che ne resta, il loro battito sempre più freddo in una dinamica di imitazione e formattazione, di adeguamento ai codici di un vivere che ormai da un pezzo si è divorato l’esserci.       

E me ne rimasi lí nella luce del pomeriggio che sbiadiva, rendendomi conto, a diciassette anni, che stavo già guardando nel mio passato – e che il passato aveva un significato capace di definirti per sempre.

Lascia un commento