Deep: un racconto sulla strana profondità del fake

Deep

Rilevazione simultanea di impronte, timbro vocale e retina. E la valigetta si apre. È sempre un momento speciale. Il volto dei clienti prima si irrigidisce, poi si accende, animato da una specie di frenesia. Come se dietro l’espressione di circostanza combattessero stati d’animo opposti, famelici. Il vecchio antagonismo tra eccitazione e distacco, tra chi sei e chi devi essere. O almeno credo. La valigetta, in ogni caso, è un autentico gioiello: schermo virtuale a nanoparticelle, altoparlanti di classe A integrati ed estraibili, scansione ambientale per l’ottimizzazione runtime di audio e immagine, isolamento a triplo firewall, eccetera. Uno spreco, considerato che nella maggior parte dei casi viene utilizzata in modalità proiettore. 

Lo scopo comunque viene raggiunto. I clienti rimangono affascinati dalla sequenza di accensione, col guscio che si alza, quel ronzio sottile, la retroilluminazione della tastiera. Una coreografia di promesse sul punto di stravolgere il grigiore lussuoso della loro quotidianità. Vale per tutti: semplici caposettori, digital strategist, direttori di livello medio, manager apicali. Posso vedere la frenesia correre lungo le loro tempie, le mandibole e i tendini del collo come una lucertola di vetro.

La sala riunioni 2 della Twelve Dreams è allestita ottimamente per i test. La parete è trattata per simulare uno schermo professionale, l’impianto audio WowL è di terza generazione, le poltroncine sono di tipo adattivo: più o meno la situazione ideale. Qualcuno spegne le luci e inizio a proiettare. Sullo schermo si staglia il logo della DeepFame, lettere argento sbalzate su sfondo blu cobalto. Avvio il primo demo.

«Come vi dicevo, il catalogo delle esclusive e delle co-esclusive della DeepFame si è arricchito di alcuni nomi importanti. L’offerta è ulteriormente diversificata, nell’ottica della trasversalità che, vi ricordo, consente di intervenire sul perimetro del target e non semplicemente di adattarsi ad esso. Fatti seguire, non inseguire: più che uno slogan, è la nostra filosofia. Col vostro permesso, inizierei dal settore Oldies. Ovviamente vi invito a interrompermi per ogni dubbio o curiosità.»

Cenni di assenso animano le teste dei cinque dirigenti seduti nella prima fila di quello pseudo-cinema improvvisato. Qualcuno accenna a voltarsi, dedicandomi un’espressione che viene ingoiata dalla penombra. Verifico che il controllo vocale sia disattivo – le linee guida lo sconsigliano per le presentazioni – e distendo entrambe le mani sulla tastiera.

«Bene», proseguo. «Rispetto al catalogo precedente, restano confermati tutti i nomi ad eccezione di Lucille Ball, Lon Chaney, Peter O’Toole e Anita Page. Spiace, ma l’indice di redditività ha scoraggiato il rinnovo della licenza di utilizzo. Ci riserviamo come sempre di riaprire le trattative in caso di specifica e significativa richiesta della clientela. La buona notizia è che abbiamo introdotto in co-esclusiva Joan Crawford e Monica Vitti, ma soprattutto…»

La pausa è studiata, però mi permette di concentrarmi sulla tempistica di avvio del frammento video.

«…abbiamo in esclusiva lei.»

Il demo si avvia. Primissimo piano sul volto, zoom all’indietro, lento. La pelle della fronte ha riflessi di marmo nel biancoenero modulato anni Cinquanta, gli occhi sono due lampi scuri, poi il naso, gli zigomi. A questo punto, prevedibilissimi, dai dirigenti arrivano i sospiri autocompiaciuti del riconoscimento. 

«Esatto, la divina Grace. Qui è davvero splendida, aveva poco più di vent’anni. Il film è La 14° ora, ovviamente disponibile anche in versione colorizzata a intensità modulabile. Ora però vediamo un piccolo assaggio di riarticolazione. Ad esempio, imposto le opzioni comedy e mini serie, direi che potremmo fare 12 puntate di mezz’ora. Per comodità posso indicare un modello, ad esempio How I Met Your Mother?. Regolo l’età minima – tanto siamo tutti adulti, giusto? – e scelgo come partner… Che ne dite di Billy Crystal? O preferite Mastroianni?»

Si alza una mano. «Mastroianni tutta la vita!»

«Bene. E Mastroianni sia.»

Faccio partire l’elaborazione in modalità trailer. Bastano pochi secondi prima che dei Grace e Marcello splendidamente trentenni inizino una schermaglia brillante e maliziosa, lei scolpita ed elusiva come mercurio, lui arguto ma impacciato, in un salotto newyorkese di inizio secondo millennio. Fermo immagine. Didascalia: “QUESTI DUE”. Sigla pop rock incalzante. Metto in pausa.

«Il database delle colonne sonore è stato arricchito con oltre duecento composizioni originali, senza contare la partnership con Universal per l’utilizzo del loro repertorio. Altra cosa importante: naturalmente è possibile selezionare anche gli attori secondari, oppure fare scegliere a FluoMo, il nostro software appena aggiornato alla versione 7.2, modulando l’indice di celebrità del cast. Possono essere introdotte delle modalità a soglia, riservando agli abbonamenti premium i cast con più star di primo livello… Ma questi sono argomenti che riguardano altri uffici, giusto? Nel nostro caso, ho selezionato la modalità random con profilazione massima.»

Faccio ripartire il trailer. Cambio di scena: suonano alla porta, Grace va ad aprire e si trova davanti un Morgan Freeman di mezza età. Fermo immagine. Didascalia: “IL PADRONE DI CASA”. Stacco, Grace che piange sulla spalla di Phoebe Waller-Bridge. Fermo immagine, didascalia: “L’AMICA?”. Altro stacco, Mastroianni al ristorante con Louise De Funes e Sofia Loren. Scambio di battute, fermo immagine, didascalia: “I GENITORI ADOTTIVI”. Interrompo.

«Come vedete, le possibilità sono praticamente infinite. Il tuning è capillare. Le opzioni consentono modifiche secondo input manuali o automatici, questi ultimi resi possibili dal sistema a scansione oculare che abbiamo ulteriormente affinato.»

«Non è andato benissimo.»

Riconosco la voce. È uno strategy analyst di primo livello che da tre anni ci muove una campagna ostile. Sospettiamo che sia in contatto con uno dei due principali competitor, ma non abbiamo elementi concreti. Soffoco l’irritazione, annuisco e mi impongo un tono cauto.

«Lo sappiamo. È andata così anche per la concorrenza. I prezzi di esercizio del sistema sono ancora alti e l’algoritmo non si è rivelato abbastanza affidabile. Ma ci abbiamo investito molto.»

«Non saprei, Alberto, credo che non sia un problema tecnico o economico. Credo che agli utenti semplicemente non importi. Non vogliono che dipenda da loro.»

Cerco di glissare. «Può darsi. In ogni caso è solo un’opzione. La novità vera è un’altra: con grande soddisfazione e orgoglio personale vi informo che l’ibridazione a tre fattori ha superato la fase beta.»

Dalle oscillazioni delle teste e dai mormorii capisco di avere fatto bingo. 

«Quindi, volete action, comedy e sci-fi? Nessun problema. Con la possibilità di dosare le tipologie anche per singolo episodio. Un wizard provvede a guidare step by step, suggerendo anche i caratteri più adatti per i personaggi. A proposito: a parte le star, sono al solito disponibili oltre duemila caratteri originali precaricati. Come ogni anno ne abbiamo sostituiti un centinaio, ma il sessanta per cento ha comunque subito una revisione con approfondimento di dettagli estetici e caratteriali. Per gli smanettoni c’è la possibilità di crearne in autonomia, anche a partire da immagini personali. Ovviamente solo per uso privato e fatte salve le immagini delle star di cui non deteniamo i diritti.»

La seconda testa da dietro si volta. Riconosco il profilo, ne intuisco lo sguardo. Lo vedo annuire brevemente. Ricambio con un sorriso generico: immagino il mio volto illuminato dal riverbero azzurrino dello schermo su cui intanto Grace e Marcello scambiano un abbraccio impacciato sotto lo sguardo perplesso di RuPaul. Interrompo, apro il menù dei caratteri, seleziono il mio set e un nome specifico. Riavvio. Al posto di Mastroianni c’è un altro volto, un altro corpo: sono io.

«Voilà. Sbaciucchiare Grace era il mio sogno segreto da quando a tredici anni ho visto La finestra sul cortile.»

Risatine, mormorii. 

«Altra novità: abbiamo migliorato l’integrazione con MuzikLearn, potete sbizzarrirvi a costruire la band dei vostri sogni sia in modalità concerto che video clip. L’elaborazione delle canzoni è più rapida del quaranta percento e i risultati, vi assicuro, sono sensazionali. Ferma restando l’impossibilità di salvare in memoria o condividere il risultato: da questo punto di vista i discografici non ci sentono. Non ancora, almeno. Chi registra con lo smartphone e pubblica in rete rischia personalmente. Ma non vi dico niente di nuovo.»

Altri mormorii, non particolarmente entusiasti.

«Per quanto riguarda invece la simulazione di eventi sportivi…»

Andiamo avanti così per i successivi quaranta minuti.

Stringo ancora una mano, rifiuto un ulteriore invito a pranzo ispessendo i contorni della scusa appena utilizzata con l’altro direttore di non so quale settore. Esco dalla sala riunioni con la valigetta in mano e lo zaino sulla spalla. Mi guardo intorno: vedo il mio uomo che mi rivolge un cenno discreto da metà corridoio. Mi avvicino con un sorriso.  

«Bella presentazione, Alberto. Sorprendente. Come ogni stagione.»

«È la nostra condanna, Fabio: sorprendervi o perdervi.»

«Non credo che ci perderete.»

«Lo spero.»

Lui annuisce, senza staccare gli occhi dai miei. 

«Senti… Possiamo fare nel mio ufficio. Ho una mezz’ora. Nessuna distrazione. Che ne dici?»

«Certo.»

Raggiungiamo il suo ufficio, due piani più sotto. Appena entrati mi fa segno di sedermi su una poltroncina laterale rispetto alla scrivania. Chiama la segretaria avvisando che non vuole essere disturbato. Si siede, attiva il monitor di gestione e blocca la porta. Mi guarda per un attimo, prima di abbassare le tapparelle elettriche. Quindi si alza, toglie la giacca e allenta il colletto della camicia.

«Posso offrirti qualcosa Alberto? Niente superalcolici, ahimé. Però ho il prosecco. Preferisci un energy drink? Acqua?»

«Niente, grazie.»

Si versa dell’acqua e torna a sedersi. Beve. Lascia passare un paio di secondi prima di parlare.

«Ci sono stati sviluppi?»

«Niente di decisivo. Abbiamo un’audizione fra venti giorni, come sai.»

«Indagini interne?»

«Infruttuose. L’ipotesi è sempre la stessa. Furto d’identità. Probabilmente hanno usato un calco dell’impronta digitale per aggirare il riconoscimento a due fattori. Quel coglione non aveva un sistema di controllo accessi digitale domestico, e spesso dimenticava le chiavi. Così, banalmente, doveva suonare il campanello, su cui un nostro tecnico ha trovato tracce di polvere di alluminio.»

«Ma come possono aver pensato… Dei ragazzini, cazzo.»

«Sono i più svegli. O quelli che hanno meno da perdere. Entrambe le cose, suppongo.»

Mi osserva per qualche istante. Beve di nuovo.

«Comunque», proseguo, «dopo il clamore iniziale tutto si sta riassorbendo. Il porno non è solo un nostro problema, tutte le piattaforme lo propongono agli utenti con vari livelli di discrezione. La gestione degli accessi è complicata anche per i nostri competitor, lo stesso vale per le liberatorie dei caratteri. I proprietari dei diritti sono ovviamente sul piede di guerra, e non solo loro. C’è molta pressione politica, figurati. Nessuno vuole immaginare che nel segreto del proprio salotto un padre di famiglia possa godersi una serie con Spencer Tracy impegnato a fare sesso anale con Sidney Poitier…»

Sbuffa, ma la sua espressione rimane distesa. 

«Se è per questo in rete è uscito di peggio.»

«Molto di peggio, certo. È incredibile come e quanto la fantasia possa attivarsi quando c’è di mezzo il porno.»

«Non so se la chiamerei fantasia.»

«In ogni caso, il messaggio è chiaro: prepariamoci a un periodo di sobrietà. Almeno su questo versante. Rimarranno disponibili pochi caratteri famosi per le combinazioni porno. I più decaduti o disperati. Ci sono maggiori spiragli ovviamente per quantro riguarda il soft e l’erotico, ma anche lì aspettiamoci un giro di vite. Per quanto riguarda la strategia, basso profilo. Il tempo di far calmare le acque, un paio d’anni forse, e torneremo alla situazione precedente. Come sempre.»

«Lo so. I bilanci sono stati già ripianificati. Ovviamente non possiamo discutere i contratti alla luce del sole perché significherebbe ammettere che… Beh, lo sai. I pass tripla X valevano oltre il venti per cento del lordo. Ci aspettiamo un calo significativo. Che dovremo compensare nei prossimi…»

«Non è detto, Fabio.»

«No?»

Mi ricompongo sulla poltroncina. Sistemo la valigetta sulla scrivania e attivo il sistema. Il guscio si apre col solito ronzio. Attivo la modalità a schermo virtuale, gli altoparlanti si aprono a ventaglio sull’esterno, il cannoncino di proiezione si alza regolandosi sull’angolazione ristretta. 

«C’è una cosa che devo mostrarti. Ho bisogno di una tua opinione prima di formalizzare una proposta che comunque dovrà rimanere… confidenziale.»

Si sporge in avanti, gli avambracci sulle ginocchia, le mani unite. L’espressione di chi in fondo si aspettava esattamente quello: un nuovo giro di carte.

«Dimmi»

«Ci stiamo lavorando da due anni. Abbiamo accelerato la fase beta subito dopo i fatti di novembre. I risultati sono… incoraggianti. In realtà, il prodotto sembra già pronto per la release.»

«Di cosa stiamo parlando?»

«Vedilo come un modo per risolvere il problema.»

Mi dedica uno sguardo guardingo e in parte divertito.

«Hai intenzione di stupirmi?»

Annuisco. «Dovrei chiederti una cortesia.»

«Cosa?»

«Un polso.»

Adesso è perplesso. Mi porge la mano sinistra col palmo rivolto in alto. 

«Grazie.»

Intervengo rapidamente. Applico la fascetta al suo polso. Verifico l’intensità della connessione,

«Mettiti comodo.»

«Cosa sta…»

Sono le sue ultime parole. Appena avvio il processo il suo sguardo si offusca, il volto sembra svuotarsi. Il monitor non rileva anomalie cerebrali, pressione e battiti perfettamente nella norma. Gli chiudo le palpebre. 

«Ok Fabio, si parte», dico anche se non può sentirmi.

Scelgo la modalità backroom. Cronometro il tempo di elaborazione dell’ambiente: quattro secondi e sette decimi. Un po’ troppo, ma accettabile considerando che siamo in esterna con un dispositivo mobile e tenuto conto degli algoritmi supplementari di protezione. Annoto di verificare nel log di sistema e confermo l’avvio della demo.

La dissolvenza in entrata rivela un corridoio illuminato a luce fredda. Lo sguardo in soggettiva di Fabio mette progressivamente a fuoco su pareti color avorio, tendente a un giallo smorto anziché al consueto grigio cementizio. Inserisco una nota nel giornale di bordo evidenziando una probabile ingerenza con la profilazione di Fabio, forse il like a qualche gioco o film, indagherò. Ecco il primo timido movimento in avanti: sta prendendo consapevolezza della situazione. Adesso si volta, osserva una biforcazione del corridoio subito dopo una porta sulla destra. Tutto è immobile, silenzioso. Inerte. 

«C’è… C’è nessuno?»

La voce di Fabio è affannata, sembra sul punto di lacerarsi. Il battito è salito a 128. Posso permettermi di aspettare. Si volta di nuovo. Inizia a muoversi, incerto, verso la biforcazione. Osserva la porta. Si guarda la mano mentre inizia a muoverla con cautela verso la maniglia. (Prendo nota: verificare il riflesso della mano sul metallo della maniglia, c’è qualcosa che non mi convince, l’immagine sembra incongrua, rilevo una lieve latenza e un eccesso di definizione, in attesa di approfondimenti suggerisco l’opportunità di una superficie satinata). Fabio afferra la maniglia, ma è bloccata. Rinuncia subito e torna a muoversi verso la biforcazione. Battito a 134. Esita solo un attimo e sceglie di andare a destra. Altro corridoio. Nessuna porta. Più avanti la luce sembra più bassa. Se ne accorge e rallenta. Si ferma. Battito a 132.  

«C’è nessuno? Alberto?»

Non rispondo, decido di aspettare ancora. Abilito una dose di pseudo adrenalinico. 

I parametri vitali, annoto, reagiscono istantaneamente. Fabio torna a muoversi, lentamente. Si addentra nell’ombra. Battito a 144. C’è una svolta in fondo al corridoio. Si piega sulle ginocchia, si schiaccia contro la parete e getta uno sguardo rapido oltre lo spigolo. Una sala, ampia, vuota. Appena più illuminata. Si rialza e prosegue, cauto. Il soffitto della sala è alto forse cinque o sei metri. Da due finestre strette come feritoie filtra una luce giallognola che enfatizza l’immobilità dell’atmosfera. Lo sguardo di Fabio vaga fino all’angolo opposto della sala, dove c’è un’apertura. Avanza in quella direzione, ma d’un tratto avverte un rumore alle sue spalle. Si volta. Sono passi, però è un suono secco, come una bacchetta che colpisce un tronco. (Prendo nota: attenzione a non esagerare col riverbero). 

Il rumore di passi aumenta di frequenza e intensità. Fabio ha un sussulto e inizia a correre verso l’apertura. Battito a 166. Si lascia scappare un gemito di terrore. Raggiunge l’apertura e si volta per un attimo. A quel punto lo vede, nella penombra. Magro, ingobbito, nudo. Gli artigli scuri e il rostro socchiuso. Gli occhi opachi. (Nota: da questa distanza e con questa illuminazione il dettaglio degli occhi è ben poco realistico, ma devo ammettere che l’effetto è impressionante). Fabio si infila nell’apertura, più bassa di quanto sembrasse da lontano. Scappa. Nel rumore dei suoi passi e del respiro affannoso si insinua quello dei passi dietro di lui, lanciati all’inseguimento. (Nota: l’effetto è ottimizzato alla grande, l’idea della sincronizzazione è stata geniale). Battiti a 173. 

Il corridoio è tortuoso, prevede porte ogni sei metri circa. Una, sulla destra, è socchiusa. La luce che filtra dallo spiraglio attira il suo sguardo. La spalanca, si infila nella stanza, chiude la porta dietro di sé. Afferra la maniglia tenendola bloccata. Respira affannosamente, battiti a 188. Valuto la possibilità di una dose di sedativo, ma decido di attendere. Fabio appoggia la testa sulla porta, sente i rumori ossuti dell’inseguitore avvicinarsi da sinistra e poi allontanarsi nell’altra direzione, fino a svanire. Battito a 177, in lieve ma costante regolarizzazione. Si guarda intorno. Nella stanza c’è un tavolo di legno naturale. Sul tavolo, c’è un foglio. Fabio lascia la maniglia e si avvicina al tavolo. È il momento.

Digito “MONTACARICHI SECONDO PIANO”, e le lettere si materializzano sul foglio. Fabio sussulta. Si guarda di nuovo intorno, trovando il nulla di prima. Battito a 142. Digito “ORA!”. La voce di Fabio è un sussurro: «Va bene».

Torna alla porta, la socchiude. La luce nel corridoio sembra mutata: è più calda e intensa, stende sulle pareti e sul pavimento un riflesso sfibrato, da vecchia foto sovraesposta. Battito a 162. Fabio spalanca la porta e si infila nel corridoio, avanzando nella stessa direzione del cacciatore. Cammina rapido ma sembra esitare ogni cinque o sei passi. La luce in fondo al corridoio assume un biancore instabile, le pareti sembrano vibrare. Sulla sinistra si apre un salone ampio, totalmente spoglio, illuminato da destra.  

«Da dove vengono queste luci, Alberto? Non è realistico, sai?»

Lo so. So cosa sta facendo. Prova a convincersi di avere capito, e a convincere me. Battito a 155.  

«Come cazzo ci arrivo al secondo piano?»

Non hai scelta, penso. E lo sai. Battito a 167. Fa un passo, due. Avanza nel salone. Riconosce subito la porta tagliafuoco, nell’angolo alla sua destra. Poi si accorge del movimento nell’angolo opposto. Il cacciatore esce dall’ombra. Si erge angoloso, i movimenti brevi, calcolati sulla preda. Fabio reagisce con prontezza. Inizia a correre. Battito a 193. Si volta per un attimo e lo vede. Vede la pelle del cacciatore, dello stesso colore delle pareti. Il rostro semiaperto, il rosso scuro della cavità orale. Gli occhi come ossificati. 

Il cacciatore non corre, balza. Ogni balzo lo spinge avanti di un paio di metri. Ogni balzo sembra risucchiare l’aria. Fabio corre e ansima. Battito a 208. La porta adesso è vicina. Si volta nel momento stesso in cui il cacciatore allunga un braccio e gli afferra una spalla. Fabio si divincola, perde l’equilibrio, cade. Con un balzo il cacciatore gli è addosso. Gli blocca i polsi.  

«Che cazzo, no! Alberto, Alberto, ferma tutto, ferma!»

Il rostro si apre, la doppia fila di denti si inclina in avanti formando un cuneo giallognolo. Il cacciatore non emette alcun suono. 

«Alberto, basta! Basta!»

Il cacciatore colpisce Fabio al petto. Buio. Abilito un’altra dose di sedativo. Passano i secondi. Uno, due, tre, quattro, cinque. Un lampo chiaro. Di nuovo buio. Altri secondi, ne conto sei. Dissolvenza in entrata, dettagli sfocati. Luce fredda. Il salone è lo stesso, ma sembra collocato in un tempo diverso. Non c’è nessuno. La porta tagliafuoco è distante pochi passi. Fabio sussulta. Battiti a 78. Digito “SECONDO PIANO”. La scritta si materializza sul soffitto del salone. Fabio prova a sollevarsi. Porta una mano al petto, fa correre lo sguardo sulle gambe, sui fianchi. 

«Non sono… Non mi ha colpito?»

Si alza. Cammina a passi incerti verso la porta tagliafuoco. L’apre. Un corridoio stretto, il soffitto basso. Sulla parete di destra, un’apertura quadrata. Piccola. Fabio si avvicina.

«Questo sarebbe un montacarichi? Ci entro appena, Alberto.»

Dopo il terrore è preda di uno stordimento che lo sfibra, ma che ha la forza di combattere con un’impudenza sprezzante. So che è dovuto anche all’azione del sedativo. Evito di interagire, aspetto le sue mosse. Fabio esita, emette un sospiro rumoroso. Apre lo sportello del montacarichi. L’interno è illuminato da una luce fioca, come potrebbe la lampadina di un vecchio forno elettrico. 

«Cazzo, no. Alberto, non posso chiudermi lì dentro.»

Abilito una dose di ansiolitico. Aspetto. Fabio si guarda intorno, il suo respiro si fa più fitto. Geme. Mormora un’imprecazione tra i denti, poi si inginocchia e striscia dentro. Cerca senza trovarla la tastiera dei comandi. Sente dei passi nel corridoio e d’istinto chiude lo sportello, tentando di evitare ogni rumore. I battiti schizzano a 150. Sente un rumore di passi in avvicinamento rapido. Si fermano appena fuori dal montacarichi. Il silenzio è abitato dal respiro di Fabio, sotto al quale emerge una vibrazione sempre più chiara, come un circuito sul punto di incendiarsi. Lascio passare qualche secondo, poi forzo l’avvio della sequenza finale.

Di colpo la luce si spegne e il montacarichi inizia a precipitare, risucchiato da un vuoto senza fondo. Fabio grida. Grida parole senza forma. Grida come se il grido fosse materia, carne, anima. Battiti a 214. Il momento è arrivato.    

«Fabio», dico. Il suo grido si strozza, diventa la scia sbriciolata di un ululato.   

«Fabio», insisto, «ascolta. Devi solo ascoltare.»

Silenzio. Il sibilo, le vibrazioni. E il silenzio.

«Riconosci questa voce, Fabio?»

Silenzio.

«La riconosci?»

Silenzio.

«Sembri abbastanza tu?»

Sibilo. Vibrazioni. Silenzio. 

Battiti a 203.

Innesco la routine di chiusura. Ecco il fischio di frenata. Temperatura in aumento. Oscillazioni, schianti, avvitamento, l’urlo metallico dell’attrito, lo strappo della decelerazione. Poi la quiete, totale, pneumatica. Luce bianca. Abbagliante. Gli occhi di Fabio si aprono su un locale ampio, vuoto. Niente porte né finestre. C’è un uomo, nell’angolo più lontano. Fabio non riesce a metterne a fuoco il volto (non sa che non può farlo, non ancora). L’uomo si avvicina, le mani dietro la schiena. Cammina con calma. Indossa un abito blu, la cravatta di una tonalità più chiara. Adesso è vicino, ma il volto è ancora sfocato. Battiti a 215.

L’uomo si china su di lui. Alza una mano. La posa sulla sua fronte. Fabio non parla. Non si muove. Autorizzo la messa a fuoco. Fabio ha un sussulto. L’uomo sorride. Sta per parlare.

«Sembro abbastanza tu?»  

Il respiro si rompe. Poi il silenzio.

Battiti a zero.

Guardo il corpo di Fabio, abbandonato sulla poltroncina. Gli occhi rivolti al soffitto. Un filo di saliva dalle labbra socchiuse. Tolgo la fascetta dal polso e controllo la pelle: la micro iniezione è quasi invisibile. Gli agenti cicatrizzanti la faranno sparire in pochi minuti. Arresto il sistema della valigetta. Attendo con calma che il processo di spegnimento si completi. La calma, adesso, è l’unica cosa che conta. Mi soffermo sulla porta dell’ufficio, per metà già fuori. Rivolgo a Fabio un saluto, gli sorrido. Chiudo la porta. Mi dirigo verso gli ascensori principali e intanto prenoto un Taximat. Evito di prendere il primo ascensore, troppo affollato. Salgo sul secondo, sorrido ai presenti. Premo il tasto del piano terra.

Fuori dal palazzo della Twelve Dreams c’è già il mio Taximat. Salgo a bordo e il piccolo veicolo si mette in moto. Ho quattro minuti per arrivare in stazione. Verifico la copertura della rete criptata e chiamo il boss, che risponde subito.    

«Tutto bene Alberto?»

«Benissimo.»

«Nei tempi?»

«Perfettamente.»

«Magnifico. Problemi con il circuito video interno?»

«No, mi sono introdotto in un attimo, come tra le cosce di una puttana. La scansione del suo ufficio è durata pochi secondi, poi hanno visto quello che dovevano vedere. Sembrerà un infarto, accaduto pochi secondi dopo la mia uscita dalla stanza. Probabilmente lo stanno già soccorrendo.»

«Se ti chiamano?»

«Dirò che sono già salito in treno. I tempi sono coerenti.»

«Ottimo. Fai buon viaggio. Ci vediamo domani per i dettagli.»

«A domani.»

Cancello la chiamata dai registri pubblici, dal sistema del Taximat e dal mio dispositivo. Finalmente posso rilassarmi e osservare la città. È sempre la stessa, anno dopo anno. Un fermento a somma zero, un reticolo di pulsioni batteriche che tentano di forzare lo schema e finiscono per neutralizzarsi ogni sera in milioni di rivoli privati, quasi sempre inconfessabili. Lo skyline si staglia metallico contro il cielo abbacinato di metà giornata. Un piccolo stormo di uccelli neri taglia in diagonale il trapezio azzurro tra due torri di vetro. I marciapiedi sono quasi deserti, i negozi ormai sono solo vetrine, totem su cui vanno in onda pantomime iperdinamiche in cerca di passanti profilati o sul punto di esserlo. Alzo di nuovo lo sguardo verso il cielo. Un drone aleggia a pochi metri di altezza, si avvicina con uno scarto, mantiene la stessa velocità del Taximat. Poi si allontana e sparisce in un lampo.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...