Il tempo riflesso – L’anno capovolto di Simone Innocenti

La clessidra è il simbolo del tempo appeso a uno scorrere materiale, l’icona standard dell’attesa. Ad esempio, quando la clessidra compare sullo schermo del pc, ti comunica una stasi attiva: sta accadendo qualcosa anche se tutto sembra essersi congelato. A differenza della circolarità degli orologi, la clessidra è rassicurante perché prevede un termine. Misura un periodo che scorre e si esaurisce, come la vita. In altre parole, il tempo non dorme mai. Esiste sempre, si consuma, consuma. Tuttavia, esiste in quanto percezione e convenzione, è una proiezione soggettiva e sociale, una trama, uno schema. Il tempo è un’ossessione che si è fatta convenzione, e viceversa. Il tempo è un riflesso, un racconto. 

Il tempo è l’elemento centrale e ricorrente del secondo romanzo di Simone Innocenti, L’anno capovolto, un titolo che allude proprio al capovolgimento della clessidra come prassi per avviare una nuova misurazione. Il punto è: quanto si tratta di un nuovo periodo e quanto invece è un rimettere in circolo – ogni volta – il precedente? Del resto, la forma stessa della clessidra suggerisce una dimensione palindroma – speculare? – del tempo. 

Innocenti colloca venti personaggi in una unità di luogo – la grande villa di Giulio e Francesca – e in un tempo che sembra sospendere (o far collassare) il tempo, ovvero l’ultimo giorno dell’anno, quando idealmente si gira la clessidra e il presente diventa un perno tra passato e futuro, tra rimpianti e programmi. I venti amici si avvicinano alla soglia dei quarant’anni, si trovano su un crinale, assediati da ambizioni, frustrazioni, dipendenze, infatuazioni, malattie, segreti, perversioni. L’amicizia che li lega è tanto solida quanto ricca di risvolti, uno squadernare di motivi e moventi annidati nel profondo, radicati nella loro stessa identità, nel concetto stesso di identità.

Ogni capitolo è dedicato a un personaggio, attraverso la cui angolazione – in prima o terza persona – si sgrana il flashback che lo ha condotto fino a quel punto fatidico, nel cuore di una notte che sembra destinata a farsi bilancio e crocevia. Un po’ Il grande freddo, un po’ Dieci piccoli indiani, un po’ Rashomon: la situazione pagina dopo pagina diventa gomitolo di relazioni, insidie, colpe, traumi. Così tanto che a lungo andare si rivela ben poco realistica, volutamente artificiosa. Innocenti calca evidentemente la mano, gioca con la peculiarità pubblica e privata dei personaggi, ognuno dei quali deve fare i conti con lo sgomitare del destino, l’accartocciarsi delle aspettative, l’inattesa piega degli eventi. Ne risulta un accumulo di eccezionalità e coincidenze che rende la situazione sempre meno credibile, ma si tratta di un rischio calcolato, perfino necessario: siamo in una dimensione evidentemente teatrale, la drammaturgia chiede un obolo alla realtà, e il realismo se ne faccia una ragione.

Il caso è uno sgambetto del tempo”, penserà Caterina, la modella che ha sepolto le insicurezze sotto strati di bellezza e determinazione. Francesca invece, la padrona di casa bramosa di conferme ed emozioni forti, sostiene che “il tempo è solo un cavo teso tra la tua vita e la felicità”. Dal canto suo invece Lucrezia, la moglie che si sta riappropriando di se stessa, prima afferma che “la perversione del tempo è la realtà” e poco più tardi che “il tempo è la perversione della realtà”, ma non sembra troppo consapevole della differenza. Questa ricerca della sentenza, della frase-spartiacque, tradisce ulteriormente l’intenzione di Innocenti: i personaggi del romanzo sono simboli antropomorfi in cerca di senso, sono meccanismi, stradari narrativi. Ma la loro meccanicità – persino la loro schematicità – è del tutto funzionale al dinamismo di una storia che precipita in orizzontale, risucchiata dal punto in cui i denti degli ingranaggi dovranno combinarsi o stridere, comunque trovare l’incastro, risolvere la somma delle linee di forza. 

Il finale non si può, ovviamente, rivelare, ma quello che conta è ciò che in filigrana si avverte capitolo dopo capitolo, personaggio dopo personaggio: una somma zero angosciante, la vanità/vacuità che ingoia tutte le energie, la sensualità, la rabbia, i castelli in aria, i disegni – spietati, aleatori, contorti – delle volontà.  

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