Gli Ottanta del nostro scontento: Canzoni per fare l’amore di Filippo Casaccia

Qualche tempo fa durante una presentazione ho sentito dire a Michele Mari – vado a memoria – che tutto ciò che conta davvero nella vita avviene entro i dodici anni, il resto è maturazione, sopravvivenza, ricordo, rimpianto, nostalgia, eccetera. Concesso all’autore di Rosso Floyd, Verderame e Leggenda privata (tra gli altri ottimi lavori) il beneficio dell’esagerazione poetica, credo che in quella sua affermazione ci sia qualcosa di incontestabilmente vero, almeno per quanto riguarda i dispositivi e le particelle elementari di ciò che tendiamo a definire magico, fantastico, misterioso, eccetera. Una specie di “serbatoio” a cui attingeremo per il resto dei nostri giorni, ogni volta che saremo abbastanza fortunati da avvertirne il bisogno. Ritengo però che, in una visione più realistica o per meglio dire prosaica, il limite temporale entro cui avviene questo “rifornimento d’immaginario” possa essere spostato di qualche anno in avanti, andando a coprire il periodo dell’adolescenza e spingersi addirittura – facciamo conto tondo – fino al fatidico esame di maturità. Troppo convenzionale? Un po’, certo. Ma le convenzioni conoscono ragioni che la ragione non sempre coglie. Forse.

Questo preambolo mi torna utile per sostenere che un romanzo come Canzoni per fare l’amore – l’esordio nella narrativa per Filippo Casaccia , già autore del saggio Divine Divane Visioni (Odoya, 2017) – possiede la capacità di cogliermi, ahimé, disarmato. Penetra le mie difese con la noncuranza di un fantasma che attraversa i muri. Mi contagia come un raffreddore d’aprile. Mi obbliga a una generosissima sospensione dell’incredulità, malgrado nel frattempo i retropensieri carburati a principio di realtà e induriti dal callo del disincanto non facciano che sussurrare alle mie orecchie: “non ci cascare”. E invece, boh, cosa dire: ci casco.

Eccomi lì, nel 1986, assieme a Eugenio, di cui l’anagrafe racconta che di anni ne ha diciassette (quasi diciotto), gli stessi che avevo io in quei giorni strani e formidabili. Quindi: è un diplomando, come lo ero io. Certo, lui frequenta il liceo ed è pure bravo, mentre io arrancavo all’Istituto Tecnico Industriale. Inoltre, vive a Genova, non in un paese con velleità cittadine in mezzo alla Toscana. Vabbè, sono dettagli. Di fatto, leggo e sono qui che torno a respirare assieme a ‘sto ragazzo pensieroso e vagamente nerd l’aria degli Ottanta di mezzo, tra riflusso e misteri di Stato, tra rivoluzioni rivoluzionate dai capogiri della Storia, tra canzoni che guizzano come pesci nelle rapide e compilation come pezzi di cuore, tra cinema minacciati dai videoregistratori, libri che prima o poi devi leggere (perché non sia troppo tardi) e sesso che tra il prima e il poi esiste una sola opzione: adesso. E ancora le interrogazioni con o senza rete di sicurezza, gli scioperi che non sai bene perché li fai ma li fai, le velleità intellettualoidi, il calcio come febbre elettrica e connotazione tribale, e ancora il sesso, il sesso che c’entra sempre, il sesso che meglio se è prima, meglio se è adesso.

Quindi, in una storia che si srotola un po’ ironica e un po’ umoristica, con la levità pungente e l’arguzia cardiaca di un Hornby, ecco l’incontro tra Eugenio e Annalisa, e un po’ di soppiatto sbocciare quella cosa che si direbbe amore, questa piantina aliena che spunta nello spaesamento generale, tra le amicizie vive e quelle storte, nella mappa familiare scompigliata, mentre scricchiolano gli scenari di cartone del futuro. Ed ecco, ça va sans dire, il sesso, sempre lui, ora e qui, che è un acquistare dimensioni senza riuscire a dominare l’idea che “io” adesso significhi qualcosa in più di uno, e al tempo stesso però essere ancora l’uno sfocato che si era l’altro ieri, senza alcun dubbio (a parte i soliti mille, milioni di dubbi). E in questa euforia frizzante e scomposta sentire annidarsi e crescere il serpentello che torna a dire “IO”, subdolo, maiuscolo, singolare, con la sua crudeltà flagrante che intossica anche quel sentimento sbocciato così grande e incomprensibile e volatile. Sì, era tutto più facile, ma non era facile.

Canzoni per fare l’amore è, per farla breve, una storia di formazione e di rimpianto generazionale. Dovessi dire a cosa somiglia, citerei Porci con le ali per come il privato slinguazza col politico (e l’ormone col neurone), ma anche Il tempo delle mele per la disinvoltura con cui rende sfaccettata la crisalide (post) adolescenziale, più un pizzico di antagonismo da teenager marginali alla Jack Frusciante è uscito dal gruppo, il tutto stemperato da una spolverata di piacionismo indolenzito tipo Notte prima degli esami e da pennellate oniriche/emblematiche neanche troppo vagamente Il cielo sopra Berlino. Una ricetta più composita insomma (e in odore di post-moderno) di quanto lascerebbe pensare la scioltezza del risultato.

Ogni tanto il gioco si scopre un po’ troppo, il bisogno di periodizzare (enumerando fatti storici, titoli di film e canzoni, eventi sportivi, trasmissioni tv…) sembra prendere il sopravvento, anche la trama a tratti rischia di sbandare nell’improbabile, ma la storia arriva comunque in porto: merito di Casaccia, che ti dà sempre la sensazione di sapere come mantenere la rotta, evitare le secche e lasciare a distanza gli scogli. Per farla breve: è uno scrittore fatto e finito, malgrado il curriculum racconti più che altro di una carriera come critico (cinematografico e musicale) e autore televisivo (per Le Iene, Gialappa’s Band e MasterChef).

Voltata l’ultima pagina, scopri di avere voluto bene a Eugenio, ad Annalisa, a Marcella, e anche alla “piacente” Federica, certo. Ma ancora di più a quella Genova gelida e bollente, a quegli anni tutto sommato amorfi (eppure, bene o male, formidabili), al loro corredo di illusioni che il futuro si apprestava a tradire. Come sempre fa, ahinoi, il futuro (quel bastardo).

«Ecco, scusa: ma tu, come ti vedi? In politica, nella società…».
«Io? Beh, tendenzialmente mi do torto, sempre».

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