“Rituale dei giorni nuovi” è il sottotitolo di questo romanzo così denso e particolare, l’esordio per Simone Marcelli Pitzalis, classe ‘91 da Cagliari ma residente a Bologna, già autore di poesie e racconti.

È ambientato in una piccola città, anzi un paese, di cui significativamente non viene specificato il nome né la collocazione geografica. Potrebbe essere uno dei tanti “borghi” sbocciati lungo i circuiti turistici che riscoprono quel passato di cui il boom economico aveva fatto scempio, col risultato di violentarli due volte, prima industrializzandone selvaggiamente il tessuto urbano, poi gentrificandolo in un recupero da cartolina di forme tradizionali pesantemente – e funzionalmente – idealizzate.
Ma lì stanno i capannoni. Occuparli è il malaugurio di un cataclisma che vorrebbe cancellare ogni cosa qui e oggi, un validare qui e ora le parole che fanno ordine, prima che ci pensi il mondo, con i tempi suoi che non ci toccano, cancellare tutto ciò che conta qui e oggi, perché qui e oggi, ogni cosa, è proprietà.
Il risultato è sradicamento, edificazione di non-luoghi: da un lato abbandono e brutture periferiche, dall’altro ottusità culturale, in entrambi una competitività meschina a far stridere gli ingranaggi dei rapporti sociali. Ma “ambientato” non faccia presupporre una vicenda, a un intreccio, a dinamiche relazionali: Pitzalis si tiene a distanza dalle strutture del romanzo convenzionale, sceglie un io narrante ondivago, quasi ectoplasmatico, una specie di anima non binaria che aleggia senza pace tra luoghi e personaggi sfibrati, inariditi, disorientati. E lo arma di un linguaggio popolare e frondoso, un linguaggio che districa e scava, che rivolta e semina.
(…)io temo la menzogna e ho orrore dell’artificio, dell’arbitrio stucchevole dei romanzi romanzetti, così ho inseguito il paesaggio mutante con le parole, insegui insegui mi sono perso in un incartamento di suoni e immagini, e tutto si disperde e tutto sedimenta secondo una logica senza narrativa, dovrei inventare, dovrei inventare?
In questa storia accade in definitiva solo una cosa: all’interno di una ex-fabbrica occupata da un gruppo di ragazzi, la transgender Veronica cade in stato di catalessi. Gli amici di questa specie di centro sociale improvvisato se ne prendono cura, ma lo stato di lei non migliora: si nutre appena, è assente. Questo l’occhio di un ciclone scuro e immobile attorno a cui la scrittura si dipana melmosa, batterica, portando allo scoperto strato dopo strato il sistema nervoso di una comunità incancrenita. In questa cornice, il problema dell’identità di genere è la sfaccettatura di una più vasta e generale frantumazione delle identità nel mortaio della società di massa, che come una “placenta velenosa” inocula i suoi veleni spacciandoli per valori, per ricchezza, per obiettivi.
Si consuma qui un rovesciamento di giudizio, che però rimane amaramente incompiuto: è vero che la famiglia egemone del paese, proprietaria tra l’altro del capannone occupato, fa leva su meccanismi oppressivi quando non illegali per allargare possedimenti e sfera d’influenza, ma può contare in ciò sulla complicità volenterosa e pavida dei compaesani, sulla loro ignavia oramai fisiologica, portato di una vera e propria educazione alla convenienza, al benessere come denominatore minimo e comune del quieto sopravvivere.
La fluidità di genere, l’incapacità di gestire un patrimonio e il nomadismo sono altrettante “malattie” vissute come minaccia da un ordine in fin dei conti consapevole della propria stessa ipocrisia, ma non per questo meno convinto della propria necessità, della propria superiorità – verrebbe da dire – ontologica. Tale ordine è però e comunque un artificio, un manufatto, una convenzione destinata a perdere senso nella prospettiva del tempo. Proprio alla luce di questo Pitzalis invita a sciogliere la lettura dall’ansia di interpretare, sembra anzi indicare proprio in questa fame di senso un limite della letteratura, suggerendo invece di abbandonare i percorsi morali convenzionali, di recuperare una prospettiva più ampia – illimitata – del raccontare:
Alla gente piace che nelle storie campeggi evidente una morale. Morale moraluccia che dia un senso alla storia e a chi l’ascolta, una direzione buona per il giudizio. (…) La gente cerca la colpa e la responsabilità, la lezioncina in fondo alle strade, soprattutto alle strade che si rivelano sbagliate per chi le imbocca, perché se nel mondo ti perdi per colpa e non per fato allora il mondo fa meno paura. La gente sparisce. Ne sparisce ogni giorno, senza fare notizia. Le loro strade si infilano in pantani di campi vuoti, di notte, o tra dune di sabbia ingannevoli, il vento cambia le dune e sposta le strade, le copre di terra e le confonde, le copre finché le strade non ci sono più. Questa è una metafora, e non lo è.
Questo è il corpo è un oggetto anomalo e denso che chiede al lettore attenzione e disponibilità a ogni capoverso. È un allarme crepuscolare, un monito inquietante come gli stormi di parrocchetti verdi che frullano con regolarità tra le pagine, deliziosi alieni intrusi piovuti da una fiction avverata, glitch di una realtà che percepiamo come output di un traduttore automatico codificato su conformismi e neo conformismi, dietro al quale continua a esistere una realtà senza codice, senza errori, senza correttezza, senza forma.
Mi spaventano entrambe le possibilità dell’occhio umano, riconoscere, non riconoscere. Mi spaventano le forme.
Il sottotitolo citato all’inizio allude quindi – anche per il senso etimologico del termine “rituale” – a un procedere, a un andare oltre, verso una consapevolezza rinnovata, resa necessaria dai giorni nuovi che ci attendono. Rituale come passaggio ma anche – inevitabilmente – come sacrificio: delle certezze, delle morali. Dell’idea solida – consolidata – di noi.