I codici della distopia sono collaudati, per non dire prevedibili. Eppure continuano a funzionare benissimo: più che un metodo, sembrano il riflesso di un meccanismo mentale archetipico, ovvero il modo con cui homo sapiens da qualche migliaio di anni prefigura gli sviluppi futuri (con particolare riferimento a quelli sfavorevoli) come narrazione, quindi oltre i percorsi dell’abitudine e dell’istinto, assicurandosi così un vantaggio cruciale dal punto di vista evolutivo. Questo “oscuro scrutare” col periscopio della fantasia alla ricerca di moniti salvifici – o anche solo affascinanti – è un dispositivo che non conosce logorio perché i punti nevralgici del presente si aggiornano di continuo e offrono sempre nuovi temi, quindi la possibilità – la necessità – di architettare nuovi scenari.

Di base, nel romanzo distopico viene escogitata una situazione futuribile, ovvero una proiezione evolutiva del presente, quindi per molti versi attendibile – deve esserlo, in una qualche misura – anche se pur sempre funzionale alle intenzioni narrative. Lo scenario così definito riveste un ruolo primario rispetto all’azione, perché già contiene una forte tensione narrativa rispetto all’attualità dell’autore (e del lettore, nel caso in cui sia contemporaneo al romanzo). Ma si tratta pur sempre di un romanzo e quindi un plot deve esserci, un intreccio a cui affidare il compito di far emergere il senso dell’opera: c’è sempre, anche nei casi apparentemente più statici (tipo Il mondo nuovo di Huxley, L’invincibile di Lem o L’uomo è forte di Corrado Alvaro), testi nei quali è nel protagonista stesso – vero e proprio simbionte, o avatar, del lettore – che ha luogo gran parte dell’azione come frutto di un attrito esistenziale/morale rispetto alla situazione futuribile.
Il nodo di Pieralberto Valli sembra sposare in pieno quest’ultima formula. Dopo Finché c’è vita del 2015 e Trilogia della distanza del 2020, la terza prova letteraria del musicista (un tempo parte dei Santo Barbaro, da qualche anno si è messo in proprio) e scrittore cesenate fa implodere l’azione, la interiorizza, ne rallenta il battito per raggiungere una stasi tremolante e densa. Come romanzo distopico è quasi tutto situazione. Il futuro – a un paio di generazioni di distanza da noi – è stato determinato da una forte discontinuità chiamata Neustarten, che ha introdotto una forte riduzione demografica – il numero gli abitanti del pianeta viene indicato in circa un miliardo – e una netta delimitazione geografica, per cui tutto ciò che si trova fuori dagli agglomerati urbani semplicemente non esiste.
A questa riorganizzazione “esterna” del mondo corrisponde una ridisposizione “interiore”, tanto degli individui quanto degli equilibri sociali. Se da un lato i corpi – ovvero le loro funzioni fisiologiche e psichiche – vengono monitorati e gestiti in tempo reale, dall’altro le forze che regolano le dinamiche sociali – a partire dalle forme della comunicazione – vengono sottoposte a una costante azione di controllo e aggiustamento. Nessun aspetto dell’esistenza individuale è lasciato a se stesso da un meccanismo sociale tanto invisibile quanto pervadente.

La rottura di questa situazione avviene quando Hermann (da notare la prevalenza di onomastica e terminologia tedesche) scopre nella cantina del suo appartamento un giovane “twà”, ovvero un paria, un individuo che non appartiene al sistema sociale dominante. Un alieno, se preferite. Anziché denunciarne il ritrovamento, come vorrebbe il suo compagno Johann, Hermann decide di riportare Novak (questo il nome del “twà”) ai suoi familiari, a casa, in un territorio che si trova al di fuori dei confini urbani quindi là dove nulla dovrebbe esistere. Questo luogo è il nodo, una comunità di persone prive del “marchio”, il cui modello sociale non è regolato dalla connessione a un sistema ma prevede una ritrovata consapevolezza del proprio corpo, del provare sensazioni, del produrre un cambiamento sulla realtà.
“La modernità era un antidolorifico dell’anima, un compressore degli eccessi che al nodo germogliavano di nuovo nelle ondulazioni più estreme di sentimenti che mi erano totalmente sconosciuti”
Qualcosa di misterioso e profondo si muove nel protagonista mentre entra in contatto con la comunità del nodo, la percezione di un disegno, di un destino. Inizia così un percorso introspettivo, un confronto che ripercorre le radici del proprio essere individuo sociale, ovvero socialmente determinato, e tende verso la riscoperta di sé come animale umano. Siamo quindi dalle parti di un topos classico della letteratura distopica, ovvero il conflitto tra caos e controllo, con le relative oscillazioni di senso e valoriali.
Ma, come già per il recente Vegan Holocaust di Salvatore Setola, sono i temi caldi del presente ad affiorare in filigrana, in particolare quelli della psicometria come un corollario sottaciuto dell’automazione, dello sdoganamento culturale della farmacologizzazione ad ampio spettro e del post-umanismo bioingegnerizzato, in ultimo – ma non ultimo – della emarginazione del disallineato. Inevitabile poi ripensare alle riflessioni di “Bifo” Berardi sul montante predominio della modalità connettiva rispetto a quella congiuntiva, sulla conseguente astrazione e de-sensorializzazione (della neutralizzazione) delle relazioni.
Valli è abile a evitare la trappola della retorica, delle risposte a gratis. Accompagna il lettore sul crinale e indica il crepaccio, suggerendo la presenza di fratture che, invisibili, ci attraversano ogni giorno. La prima persona di Hermann si srotola con neutralità ipnotica, è un flusso di descrizioni, riflessioni, visioni e discorso diretto che ispessisce la vocazione introspettiva della vicenda, come se alla resa dei conti potesse trattarsi di una lunga allucinazione, lo sversamento di un incubo ricorrente, complementare alla vita.
“Era la luce del progresso ad aver sostituito il sole al centro dell’universo nella certezza che ci sarebbe sempre stato un pezzetto di futuro oltre il presente; e lo aveva fatto sulla base di un presupposto di eternità. Ma cosa sarebbe accaduto se oltre il futuro non si fosse trovato nulla?”