La resistenza interiore di Elio Vittorini

A un lettore non letterato come me accadono strane situazioni, per molti versi sconcertanti, ma al tempo stesso assai belle. Prendi ad esempio Elio Vittorini: ne ho sentito parlare da sempre, il suo è un nome che spunta con regolarità, certo, ma in ambiti che tendono a sfuggire alla presa, a slittare, a sovrapporsi. 

Mi è capitato di incontrarlo in articoli dedicati alla cosiddetta “narrativa della resistenza”, accanto ai vari Fenoglio e Pavese, ai Cassola e ai Bassani: questo lo “scaffale” più utilizzato, anche per ovvi motivi biografici (nato nel 1908, Vittorini scrisse i suoi lavori più noti a cavallo del secondo conflitto mondiale). Mi è anche accaduto tuttavia di vederlo citato assieme ad autori assai peculiari come Alberto Savinio e Italo Calvino, per non dire dei collegamenti coi temi e modi della “lost generation” statunitense, testimoniati ad esempio dalla stima reciproca tra lo scrittore siciliano ed Ernest Hemingway (di cui nel 1940 tradusse Per chi suona la campana).

Ma, in un modo o nell’altro, non sono mai riuscito a mettere a fuoco il ruolo o se preferite l’importanza di Vittorini per la letteratura italiana del Novecento, né – di conseguenza – mi aveva preso finora l’urgenza di leggerlo. L’ho già detto: sono un illetterato. Poi è andata che, semplicemente, ho letto Conversazione in Sicilia e Uomini e no. Mi piacerebbe poter riferire che è successo per un motivo ben preciso: ma non c’è. Me li sono letti e basta. E molto di quello slittamento a cui accennavo, di quell’incapacità di mettere a fuoco gli ambiti e l’aspettativa, ha acquistato senso. In altre parole: leggerlo mi ha molto sorpreso. 

Il viaggio di Conversazione in Sicilia si consuma sulla linea di confine tra astrazione e realtà, in un equilibrio allucinato che confonde pagina dopo pagina il piano del simbolico col ribollire della memoria e il dipanarsi cronachistico. Spinge – anzi: fa scivolare – il protagonista in una specie di realtà parallela, il suo è uno scollamento dall’oppressione ipnotica del suo tempo presente che lo consegna a un “tempo fuor di sesto” interiore, dove il viaggio nei luoghi dell’infanzia significa affrontare il dissidio tra se stesso e “il mondo”, quest’ultimo “offeso” da una dittatura pervadente che ha riconfigurato nel profondo i termini del patto sociale, violentando il senso stesso di ogni singola esistenza sull’altare del destino collettivo. Non è un romanzo perfetto, la struttura sembra instabile, molle, cede alla tentazione di darsi uno scopo (una critica radicale al fascismo e un’esortazione alla resistenza – quanto meno al resistere nell’umanità), ma il risultato è comunque – forse anche per questo – tremendamente suggestivo. 

La vicenda di Silvestro Ferrauto, tipografo siciliano trapiantato nel milanese, attraversa in direzione sud le vene aperte di un Paese appeso a un cappio che i più fingono di non vedere, vaporizzando nel procedere l’impronta neorealista a favore di movenze oniriche e un respiro amniotico da commedia shakespeariana, abitata da spettri e fool, accartocciata in un ermetismo necessario (al momento della pubblicazione – nel ‘38 a puntate e in volume nel ‘41 – la censura mussoliniana era piuttosto feroce) che rischia di soffocarne l’estro ma che pure ne rappresenta il principale elemento poetico, un formidabile codice di spaesamento espressivo. 

L’interno di Silvestro e l’esterno della realtà sembrano scambiarsi di posto, sostenersi vicendevolmente in un processo di ricerca affannosa e rapita, incapace di sintetizzare una verità limpida ma proprio per questo libera di aspirare a una vaghezza luminosa, consapevole di quanti limiti, imperfezioni, tradimenti e debolezze siano disseminati lungo la strada che porta alla migliore versione di se stessi (individui e cittadini), e come al contrario le verità assolute – un partito unico, un’ideologia totalitaria, la guerra… – piovano su popoli e individui per svuotarli di senso e percorso.   

Pochi anni dopo, nel 1945, vide la luce Uomini e no, che scopre le carte raccontando le gesta di Enne 2, nome in codice del comandante di un nucleo partigiano attivo in una Milano livida, infestata dalle squadracce mussoliniane e tenuta in scacco dal controllo oppressivo nazifascista. Anche in questo caso, la membrana tra esterno e interno si rivela porosa: ciò che accade – gli attentati dei partigiani, le sanguinose ritorsioni nazifasciste sui civili, le fughe, le ore di attesa nei nascondigli… – sembra emergere in funzione di ciò che provoca nel “mondo interiore” di Enne 2 e Berta, nello strano intrecciarsi di una relazione che aspira a una problematica normalità, così come le loro singole coscienze si trovano esposte alla brutalità degli eventi, disposte a farsene turbare, ad ascoltare il grido lacerato che proviene dalle vittime e dai carnefici, dal tumulto di un tempo ostile. 

È un romanzo introspettivo nel senso che fa collassare uno scenario febbricitante di Storia nel tormento esistenziale – intimo e al tempo stesso universale – di personaggi (Enne 2 in primo luogo, Berta secondariamente, più altri accennati con poche pennellate ma di grande intensità, come Figlio di Dio e El Paso) colti nel momento in cui avvertono la necessità vitale di sciogliere i nodi che impediscono loro di – come dire? – dare vita alla vita, a costo di perderla. È quindi un romanzo sulla Resistenza, certo, irrorato di quella vertigine calcificata, di quel disequilibrio sul bordo insidioso del destino tipico della narrativa che racconta quel terribile frangente storico, eppure è come se ci parlasse, oggi, da un tempo strappato alla Storia, di un tempo intrappolato, logoro ma inesauribile, orizzontale e minaccioso, un tempo che non smette di accadere assieme al tempo presente, di cui rappresenta la fibra profonda e la vibrazione sorda, la sostanza avversa.

L’aspettativa è molto per un lettore, soprattutto per quelli illetterati come me. Che vivo, potrei dire, nell’attesa del prossimo viaggio da fermo, di un libro che si dimostri l’ennesima mappa, un treno di notte, una strada franosa, una collezione di sguardi anomali e un rifugio, una via di fuga. Libro che talvolta è un incontro fortuito, un biglietto staccato all’ultimo minuto, ma più spesso è il risultato di un incastro complesso, di un nevaio di suggestioni e – certo – aspettative che spingono a pianificare percorsi volubili e precari.

Ecco, questi due strani e affascinanti romanzi di Vittorini mi hanno regalato, tra le altre cose, soprattutto la polverizzazione di quasi tutte le aspettative. Ho dovuto fare posto a una categoria di emozioni che non ero pronto ad affrontare, di cui non credevo di avere bisogno. È più o meno quello che mi auguro che accada ogni volta che inizio a leggere un libro.

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